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lunedì 23 aprile 2018

San Giorgio di Catalogna e la nonviolenza



La festa di San Giorgio è importante in Catalogna.
Quest'anno lo è ancora di più, perché è inevitabilmente dedicata ai prigionieri politici, agli esiliati, ai perseguitati.
Per noi è l'occasione per un altro omaggio alla Catalogna e in particolare alla sua scelta di lottare per l'autodeterminazione attraverso una rivoluzione intransigentemente nonviolenta.
San Giorgio nell'immaginario catalano, nonostante la sua leggenda marziale, ha assunto un ruolo più simile a quello di San Valentino, una festa d'amore e di fiori.
Non è stato difficile, quindi, in questa giornata, per i Catalani, rinnovare la loro scelta nonviolenta.
La nonviolenza è centrale, nel processo di emancipazione della Catalogna dal regime postfranchista spagnolo.
Dobbiamo sottolinearlo questo, soprattutto pensando al tragico destino di popoli e terre a cui la possibilità di fare una scelta nonviolenta non è stata data. Donbass, Abkhazia, Ossetia del Sud, Cecenia, Afghanistan, Balochistan, Pakhtunkhwa, Bakur, Bashur, Rojava, Rojhelat, province siriane, Libano, Cisgiordania, Gaza, Yemen del Sud, Cirenaica, Tripolitania, terre berbere e tuareg, per citare solo alcune delle regioni più vicine e più condizionate dal neocolonialismo occidentale, non hanno potuto ancora farla una radicale e duratura scelta di nonviolenza.
Perché la nonviolenza è così cruciale nel mondo contemporaneo?
Perché così tanti movimenti che pure in passato sono passati attraverso una esperienza di resistenza armata, hanno fatto o stanno pensando di fare una scelta di passaggio a modalità di lotte nonviolente? Uno fra gli ultimi è il movimento ETA basco, che ha annunciato proprio in queste ultime ore il suo scioglimento come corpo militare.

Intanto, perché essa è uno strumento oggi possibile, alla portata di tutti gli oppressi nella modernità globalizzata. Come avevano intuito, fra gli altri, Mahatma Gandhi, Bacha Khan, Martin Luther King, insieme con tanti altri leader nonviolenti, nessuna società moderna può funzionare senza un minimo grado di cooperazione fra governanti e governati (e di riconoscimento e di aiuto dall'estero, in una comunità internazionale che, nonostante i perduranti disastri dell'imperialismo e del neocolonialismo, è sempre più ostile ai costi sociali e ambientali delle guerre). Minare il consenso interno con azioni nonviolente aumenta geometricamente le capacità di resistenza degli oppressi contro ogni tipo di oppressione.
Inoltre, la nonviolenza richiede un ampio coinvolgimento della popolazione residente e sofferente. Senza una vasta partecipazione popolare, infatti, nessuna rivolta nonviolenta ha non solo e non tanto speranze, ma autentiche opportunità di successo. Questo implica che una protesta nonviolenta di massa, per quanto possa sorprendere chi la guarda da lontano, finisce per essere più autorevole, più incisiva, più efficace, entro tempi magari lunghi, ma, visti i ritmi della comunicazione contemporanea, non certo biblici.
Infine la nonviolenza, come ci ha ricordato, da ultimo, Gene Sharp, è l'unico modo di combattere l'oppressione senza scivolare nel terreno drammatico della rivolta armata, terreno in cui sono gli oppressori a essere specialisti e spesso vincenti. Troppe rivolte popolari violente sono state facilmente represse dagli stati autoritari, che hanno avuto gioco facile nel bollare i ribelli come "terroristi".
La nonviolenza nel nostro mondo globalizzato è cruciale, perché è uno strumento di lotta possibile, partecipato, vincente.
Al contrario le speranze dei popoli che sono stati costretti a impugnare le armi, sono drammatiche e incerte.
Anche di questa lezione di nonviolenza, quindi, siamo grati alla Catalogna.
Viva la Catalogna!
Visca Catalunya!

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