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domenica 16 marzo 2025

Comunità di sicurezza, cos'è e perché è importante

 


Cosa è una comunità di sicurezza e perché è un concetto importante per il XXI secolo, il secolo delle autonomie personali, sociali, territoriali

Prato, 16 marzo 2024

di Mauro Vaiani Ph.D.*

Karl Wolfgang Deutsch (1912-1992), un pensatore anticentralista e antiautoritario che in diversi - a partire da chi scrive - consideriamo un maestro di scienza politica e geopolitica, fu il primo ad intuire l’esistenza, nella modernità globalizzata, di un graduale processo di “mobilitazione sociale” (social mobilization), in un mondo in cui crescenti porzioni di popolazione stavano diventando meno povere, più longeve, meno ignoranti, talvolta persino più informate.

Una delle ricadute positive di questo cambiamento sociale era vedere intere regioni del mondo trasformarsi in “comunità di sicurezza” (security community). Molti popoli erano arrivati a togliere ai loro capi l’autorità di condurli in guerra, se non in assoluto, almeno contro un certo numero di vicini geopolitici (non necessariamente alleati o amati). Se un gruppo di popoli arriva a questa consapevolezza, fra di essi si forma una comunità di sicurezza. L’idea stessa di nuovi conflitti all’interno della stessa diventa felicemente impensabile.

Tali comunità di sicurezza possono essere anche poco o per nulla istituzionalizzate, ma non per questo sono meno reali, anche in questa modernità in cui gli arsenali militari sono pieni di armi così terrificanti da poter distruggere il pianeta dozzine di volte.

L’idea moderna di comunità di sicurezza era semplice, radicale, promettente, feconda di conseguenze, ma non era una novità assoluta nella storia: più si scava nella profondità della storia degli homo sapiens, più si comprende, come ha insegnato l’antropologo newyorkese R. Brian Ferguson, che la disponibilità di una collettività a fare la guerra a un’altra non è affatto “naturale”. E’ una costruzione sociale che, come tutte le altre, è sempre mutevole, se non precaria, comunque ben delimitata nel tempo e nello spazio.

Sembrerà paradossale, visto che negli anni Venti del XXI secolo in cui stiamo scrivendo siamo bombardati da potenti conformismi bellicisti, ma alcuni si spingono a sostenere che, nei 50.000 anni di storia degli esseri umani che condividono quella che è chiamata modernità comportamentale della nostra specie (behavioral modernity), la guerra, lungi dall’essere una condizione a cui saremmo in qualche modo permanentemente condannati, non rappresenta affatto una presenza costante.

La guerra è piuttosto una invenzione e anche piuttosto relativamente recente. Ferguson sostiene che la guerra sia stata concepita non più di 10.000 anni fa (ironia della storia: ciò sarebbe avvenuto nel nord di quello che oggi è l’Iraq). Anche dopo l’invenzione della guerra, tuttavia, essa è rimasta una costruzione politica contingente, sempre limitata dalle risorse e dalle tecnologie disponibili ai capi delle società politiche umane.

E’ con l’avvento dello stato moderno e con la rivoluzione industriale, che la guerra diventa qualcosa di ben peggiore. Per questo è necessario restare sempre critici di coloro che raccontano le guerre scatenate dalle società industriali come se fossero una “naturale” continuazione delle ostilità pre-moderne. Solo con la produzione in serie di armi, la coscrizione obbligatoria, le navi a vapore, i treni, il telegrafo, la guerra è diventata quello che è oggi. Il cambiamento di scala è talmente grande da rendere la guerra moderna un evento qualitativamente e non solo quantitativamente diverso da quello che era stata.

In un mondo che nel frattempo era stato completamente colonizzato dalla capacità bellica degli stati occidentali industrializzati, dopo un paio di secoli di conflitti moderni, culminati nelle due terrificanti guerre mondiali e nella costruzione delle armi di distruzione di massa (atomiche, ma anche batteriologiche e chimiche), si sono create le condizioni perché le persone comuni potessero far presente alle elite dominanti di averne abbastanza. Non a caso, su questo sfondo, le uniche lotte politiche e geopolitiche che hanno avuto veramente uno spontaneo sostegno popolare, e che hanno conseguito qualche successo duraturo, sono state quelle nonviolente.

La storia personale di Karl Deutsch non gli aveva consentito di essere un idealista: era un boemo di madrelingua tedesca, che si era rifugiato negli Stati Uniti già dal 1938, per sfuggire all’avvento del nazismo. Nel pieno della guerra fredda, rischiando di essere perseguitato dal complesso militare-industriale americano, ebbe il coraggio di giudicare i due blocchi contrapposti del suo tempo, quello americano e quello sovietico, come impegnati in una sinistra gara a chi esportava più violenza e più ignoranza nel mondo.

Fu sempre realista, anche se ottimista. Non si sarebbe quindi meravigliato della scarsa fortuna che il concetto di comunità di sicurezza ha avuto prima nella comunità accademica e poi più generalmente nelle elite al potere.

Forse sarebbe rimasto amareggiato, ma non del tutto sorpreso, dal fatto che, proprio nel mondo post-1989, dopo la caduta dei partiti-stato comunisti (ma anche di molte autocrazie sedicenti anti-comuniste), lo scioglimento del Patto di Varsavia e la dissoluzione – relativamente pacifica - dell’Unione Sovietica, ciò che era stato reso possibile per gran parte dell’umanità, cioè un rifiuto della guerra sempre più generalizzato, venisse così attivamente contrastato.

Proprio dopo il glorioso 1989, l’idea di comunità di sicurezza fra vicini geopolitici e in prospettiva in aree del pianeta sempre più ampie, è stata ferocemente combattuta da implacabili nemici: le elite al potere nei grandi stati centralisti e autoritari, a partire dal più potente di tutti, gli Stati Uniti d’America.

La convinzione sempre più universale che la guerra fra stati, e fra i molti popoli, territori e regioni che vivono all’interno degli stati contemporanei, fosse ormai impensabile, è stata minata con ogni mezzo propagandistico possibile.

Forse l’intero ciclo storico che stiamo vivendo, a cavallo fra il XX e il XXI secolo, dovrà essere riletto alla luce di una amara consapevolezza: se la maggioranza degli esseri umani, ormai interconnessa dalla globalizzazione, fosse stata lasciata davvero libera di considerare la guerra impensabile, nessuno degli stati contemporanei sarebbe potuto sopravvivere com’era.

La concentrazione di potere nelle mani di pochi, all’interno di ciascuna delle potenze, sarebbe stata intollerabile nel medio-lungo termine e quindi messa in discussione. Questo era stato intuito molto chiaramente, fra gli altri, da una personalità come Václav Havel (1936-2011), nel suo fecondo e disseminativo scritto, “Il potere dei senza potere” del 1978.

Si doveva togliere dalle menti e dai cuori l’idea che la guerra fosse ormai impensabile. Uno sforzo che c’è stato, purtroppo, che è ancora in corso, che sta cercando di cancellare l’idea stessa che siano invece più possibili comunità di sicurezza sempre più estese.

Per esempio non si è sciolta la NATO, che pure era diventata inutile dopo lo scioglimento del Patto di Varsavia e la disintegrazione dell’Unione Sovietica. Al contrario, si è continuato a finanziarla, potenziarla, allargarla. Per convincere le persone comuni a continuare a tenere al potere le elite atlantiste, si sono letteralmente cercati sempre nuovi nemici, provocandoli e, dopo le inevitabili reazioni, demonizzandoli. Il gigantesco apparato militare-industriale degli Stati Uniti è stato, ovviamente date le sue dimensioni, il principale attore in questo gioco per giustificare la propria sopravvivenza, ma le elite al potere in tante altre potenze – grandi, medie e persino piccole – hanno partecipato con entusiasmo.

Senza inventare sempre nuove minacce esterne, molte delle elite dominanti tanti stati del pianeta semplicemente non sarebbero rimaste al potere dopo il 1989.

La religione civile dei diritti umani, le aspirazioni democratiche, la consapevolezza che la guerra è diventata talmente distruttiva da dover essere esclusa per sempre dalle relazioni umane inter-territoriali, sono idee davvero contagiose. Ancora più virulenta sarebbe – sarà – la presa di coscienza globale che i luoghi dove gli esseri umani vivono meglio sono quelli in cui si è scommesso sulle autonomie personali, sociali, territoriali.

La globalizzazione, che pure ha prodotto molti guasti e ha molti lati oscuri, ha almeno questo di positivo: si potrà rallentare con la paura, ma non si potrà fermare una vera e propria pandemia di decentralismo.

Gli stati centralisti e autoritari stanno combattendo decine di sanguinosi conflitti, mentre stiamo scrivendo. I media, controllati dalle elite al potere, ci sommergono con incessanti campagne di paura e terrore. Nell’arena globale si sentono quasi solamente le urla dei tifosi dell’una o dell’altra parte combattente (si vedono ovunque sé-dicenti comunisti o liberisti, sovranisti ed europeisti, pro-Palestinesi e pro-Israele, russofobi e russofili, che credono di sostenere una qualche nobile causa, mentre sono solo pedine nelle mani di cinici capi politici che di queste polarizzazioni al vetriolo hanno fatto un lucroso mestiere).

Tutto questo, però, non cancella la semplice realtà che la vita umana è degna di essere vissuta solo laddove la guerra non c’è da tempo e il suo ritorno è considerato impensabile.

Potenti signori della guerra reggono la maggior parte degli stati (e delle organizzazioni terroristiche dagli stati stessi finanziate), ma è improbabile che il tempo sia dalla loro parte. Centralismo e autoritarismo sono insostenibili nel medio-lungo termine per una umanità globalizzata, interconnessa, socialmente mobilitata.

Se le persone umane fossero solo individui, esse potrebbero essere tenute in uno stato di asservimento anche tutta la loro breve vita terrena, ma così non è. La maggior parte degli esseri umani non sono – non ancora, almeno – monadi sradicate, atomi privi di legami, creature spogliate di identità culturale e appartenenza comunitaria. Il pianeta è popolato piuttosto da decine di migliaia di comunità, spesso ancora piuttosto coese: città, territori, popoli.

Se fossero parte di una comunità di sicurezza, le realtà locali potrebbero prendersi poteri e risorse che oggi sono concentrate nelle capitali degli stati, migliorando le proprie prospettive e quelle delle generazioni future. Scommettiamo che è proprio quello che accadrà.

Il XXI secolo sarà il secolo delle autonomie, che per vivere e prosperare pretenderanno di far parte di comunità di sicurezza, che renderanno progressivamente sempre meno pericolosi e infine inutili i grandi stati centralisti e autoritari.

 

* Ph.D. in Geopolitica – studioso e attivista – autore di “Cosmonauta Francesco” (2022)




domenica 30 aprile 2023

Trent'anni di World Wide Web

 

I trent'anni della messa a disposizione di tutti, liberamente, del World Wide Web, sono stati ricordati oggi dalla rubrica "Media e dintorni" di Emilio Targia ed Edoardo Fleischner, su Radio Radicale.

Il 30 aprile 1993 il CERN dichiara il proprio rivoluzionario ipertesto software libero open source, riutilizzabile da tutti. Dopo questa dichiarazione iniziò la crescita esponenziale dei siti web. Oggi almeno due terzi dell'umanità è interconnessa e li consulta quoditianamente.

Cambiò tutto.

Chi scrive si laureò in Scienze Politiche all'Alfieri di Firenze nel 1994. Era già molto informatizzato, per i tempi, ma per la tesi lavorò su veri, vecchi, polverosi libri nelle biblioteche e su fotocopie di articoli e testi nella propria stanzina. Quando anni dopo, nel 2013, depositò la sua tesi di dottorato, Disintegration As Hope, aveva ancora girato le biblioteche, per esempio alla ricerca di vecchi testi di Karl W. Deutsch che erano stati dimenticati, ma migliaia di testi e articoli erano diventati consultabili attraverso la rete. Dieci anni dopo, mentre stiamo scrivendo, la quantità di studi che sono consultabili online, in rete, ha continuato a crescere vorticosamente.

Cambiò totalmente la cultura, per prima, e cambiò tutto il resto.

Non ci siamo ancora totalmente resi conto di quanto le cose stiano cambiando in positivo (come aveva del resto previsto Karl Deutsch).

Certo, il World Wide Web è come l'energia nucleare. E' una bomba della conoscenza, che va maneggiata con responsabilità. Ha avuto, però, sin dall'inizio un vantaggio intrinseco rispetto a molte altre tecnologie: è stato concepito come uno strumento distribuito, è stato immediatamente reso disponibile gratuitamente, è replicabile con mezzi poco costosi praticamente da tutti, comprese le persone e le comunità marginali, dissidenti, magari perseguitate.

Non possiamo purtroppo dire altrettanto di tante altre tecnologie del mondo digitale: concentrazione di banche dati (big data), predizione-induzione dei comportamenti e dei consumi, sorveglianza universale, creazione di realtà virtuali (quelle che oggi sono chiamate metaversi). Sono tutte tecnologie in tumultuoso sviluppo, maneggiabili attraverso sempre più sofisticate intelligenze artificiali.

Serve la politica, per sancire la necessità di decentramento, soluzioni e tecnologie aperte e disponibili a tutti (open source), vietare i brevetti, limitare o anche spezzare i monopoli tecnologici, mantenere la neutralità della rete, proteggere le persone e la loro creatività, imporre la sobrietà elettromagnetica.

Il Cosmonauta Francesco ha lanciato un importante caveat in proposito, senza fare terrorismo, ma anzi immaginando sentieri di speranza. Non ignoriamolo.


sabato 26 ottobre 2019

Il fattore A nel lungo '89



Ci avviciniamo a una data importante, il 30° anniversario della caduta del Muro di Berlino, avvenuta il 9 novembre 1989.
Mi pare importante ricordare, seguendo in questo un insegnamento ricevuto dal prof. Luciano Bozzo, che non stiamo celebrando qualcosa di lontano e in qualche modo compiuto.
Al contrario, stiamo ancora vivendo in un "lungo '89".
Ciò che si è pienamente manifestato in quell'anno eccezionale non ha ancora finito di dispiegare i propri effetti, anzi, forse, non siamo nemmeno all'inizio - grazie al cielo, lasciatemi aggiungere.
Finirono dei regimi, si sciolsero delle alleanze militari e persino degli stati.
Il 1989 non fu solo la fine di una certa famiglia di partiti unici d'ispirazione marxista-leninista, ma anche il rilancio di altre ondate di cambiamento in tutto il mondo, contro autoritarismi, militarismi, partitocrazie, statalismi, centralismi.
La persona umana del XXI secolo, grazie anche a questo lungo 1989, sta scoprendo, fra tante altre cose importanti, il fattore "A", dove "a" sta per autogoverno, autodeterminazione, autonomia (e forse anche un po' anarchia).
Chiunque abbia una coscienza politica, sta comprendendo che c'è bisogno anche di una visione geopolitica chiara sul proprio territorio: estensione orizzontale, altezza delle gerarchie, numeri demografici e distanze geografiche, disuguaglianze economiche e sociali non solo tra cittadini singoli, ma anche tra comunità, centri e periferie.
Non ci si domanda più solamente "chi e come governa", ma anche "da quanto in alto e da quanto lontano si è governati".
Ho dedicato lunghi anni della mia vita (e l'intero mio studio di dottorato: "Disintegration as Hope") a studiare questa presa di coscienza, che fu intuita, prima e più chiaramente di altri, dal grande Karl Deutsch, a partire dal suo articolo "Social Mobilization and Political Development" del 1961, dedicato alla "mobilitazione sociale" e alle sue conseguenze politiche.
Karl Deutsch, ricordiamolo, era uno scienziato politico boemo-tedesco. Sradicato dalla sua Mitteleuropa a causa della persecuzione nazista, trovò rifugio nell'America di Franklin. D. e di Eleanor Roosevelt.
Tra le altre cose notevoli della sua formazione cosmopolita, va ricordata la sua partecipazione, come giovane consulente, alla Conferenza di San Francisco del 1945, quella in cui fu fondata l'Organizzazione delle Nazioni Unite.
Grazie alla sua solida formazione socialista, non si lasciò mai ingannare dalle apparenze sovrastrutturali.
Fu sempre lucido nel guardare a ciò che accadeva nella vita materiale e concreta delle persone, in tutti gli stati, indipendentemente dal fatto che essi appartenessero al blocco capitalista, o che fossero repubbliche socialiste, o che fossero nuovi stati sorti dal processo di decolonizzazione.
Deutsch comprese che ovunque nel mondo un crescente numero di persone non avrebbero più obbedito ciecamente ai propri stati (come putroppo era invece accaduto durante le due guerre mondiali).
Ogni governo, in una misura difficilmente comparabile con quanto mai accaduto in passato, sarebbe dipeso sempre di più dal consenso dei governati, e questi ultimi avrebbero voluto, in modo crescente, partecipare attivamente al controllo politico del proprio territorio.
Oggi sembra una ovvietà, ma maturare queste considerazioni nell'atmosfera cupa e depressiva della Guerra Fredda, in un mondo diviso e in larga parte dominato da mentalità autoritarie e reazionarie, rende l'idea della grandezza intellettuale di Karl Deutsch.
Nel mondo postbellico, la ricostruzione industriale, l'urbanesimo, la diffusione dei servizi pubblici, l'aumento delle disponibilità alimentari e di altri beni di consumo, la crescita degli indici di alfabetizzazione, la diffusione delle lingue medie globali, le crescenti possibilità di accesso alle comunicazioni di massa, lo sviluppo dei sistemi di assistenza sanitaria e sociale, hanno consentito la crescita della partecipazione potenziale delle persone alla vita politica.
Chiaramente, "potenziale" non significa reale, così come "partecipazione" non significa da subito capacità "liberale" di "conoscere per deliberare", o coscienza "socialista" di comprendere e voler redimere le ingiustizie strutturali.
Tuttavia questa "mobilitazione sociale" era avviata e Deutsch la vedeva accadere chiaramente e potentemente, sia nelle società dell'Ovest, che dell'Est, che dell'immenso Sud del mondo.
Nei decenni, molti altri studiosi hanno visto la connessione tra inclusione delle masse nella modernità e processi di democratizzazione, ma Deutsch fu ed è rimasto a lungo uno dei pochi che vedeva arrivare qualcosa in più: la mobilitazione sociale, comprese Deutsch, avrebbe avuto un potenziale geopolitico, non solo politico.
In un suo importante libro del 1970, "Politics and Government : How People Decide Their Fate" (Politica e governo, Come il popolo sceglie il suo destino), Karl Deutsch spiegò che, pur vivendo ancora in un mondo in cui le due superpotenze nucleari competevano "nell'esportazione di ignoranza", l'umanità avrebbe visto un numero crescente dei suoi membri disposti a impegnarsi per fermare l'apocalisse nucleare, l'autodistruzione ecologica, gli eccessi di urbanizzazione e industrializzazione, oltre che per porre fine a inaccettabili ingiustizie sociali.
Milioni di persone, scrisse Deutsch, anche nelle nazioni più povere, stavano ottenendo accesso ad abbastanza informazione e tecnologia, oltre che al potere di farci qualcosa.
Oggi noi scriveremmo miliardi, considerando la diffusione dell'accesso alle reti.
Entro la fine del XX secolo, aggiungeva Deutsch, avremo la maggioranza delle persone occupate nella manipolazione di simboli, conoscenze, documenti.
Così è andata infatti, solo che lo stesso Deutsch forse non immaginava quanto questo cambiamento avrebbe investito non solo i giovani, non solo il mondo del lavoro, ma anche gli anziani pensionati. Persino le persone più emarginate e più sfruttate, più periferiche e marginali, sono costrette a essere connesse. Persino dove non è arrivata l'acqua, è arrivato lo smart.
Oggi a tutti, in tutto il mondo, è richiesto di essere sempre più coinvolti, non di rado sconvolti, dall'incredibile sviluppo della globalizzazione, in continue innovazioni di stili e tempi di vita, processi e ritmi di lavoro, informazione e comunicazione.Una piccola controprova può fornirla la fonte https://data.worldbank.org/, secondo la quale nel 2018 eravamo già molto vicini ad avere la maggioranza assoluta di tutti i lavoratori del pianeta impiegati nei servizi, più che nella produzione agricola o industriale.
Come ho avuto modo di ricordare in un mio piccolo contributo a Ethnos & Demos, la persona umana del XXI secolo può sempre più scegliere cosa mangiare, dove e con chi vivere, quale vita sessuale e sentimentale condurre, se e quanti figli avere, quali convinzioni coltivare, su cosa e quanto formarsi e informarsi, come curarsi, e persino, al limite, quando morire.
E' probabile, come aveva previsto Deutsch, che questa persona umana, in aggiunta a tutto questo, pretenda anche la facoltà di scegliere in che modo e in che stato autogovernarsi.
Karl Deutsch, insieme a pochi altri, comprese che chi è socialmente mobilitato, avrebbe preteso di vivere in una comunità politica in cui percepisse chiaramente di poter fare la differenza.
Non ci si sarebbe più accontentati di votare ogni quattro o cinque anni, di guardare le cose accadere attraverso i media, di vivere in sistemi politici troppo verticali, di essere pedine in un gioco troppo grande, governato troppo dall'alto, da altri, da altrove.
I limiti fisici, spaziali e temporali, della vita e della forza di ogni singolo individuo, ma anche di ogni singola comunità locale, intuì Deutsch, sono troppo stretti perché ci si possa accontentare di aspettare risposte da autorità troppo lontane, da sistemi politici troppo complessi, da stati troppo grandi.
La persona socialmente mobilitata pretende di essere lei stessa al "potere", almeno nella sua comunità locale, sul proprio territorio, fra la sua gente.
Cosa possibile solo in società progressivamente sempre più decentralizzate e, al limite, quando necessario, in stati molto più piccoli.
Questa intuizione politica e geopolitica di Deutsch aiuta - e non poco, a mio parere - a comprendere come mai, nonostante l'avanzare di una globalizzazione che è oggettivamente una potente forza livellatrice e omologatrice, in tutto il mondo continuino a formarsi movimenti che non sono "solo" sociali e ambientali, ma che esigono una effettiva redistribuzione di potere geopolitico.
Attraverso gli studi anti-centralisti di Deutsch, si comprende meglio perché alle reti di cittadinanza più attive, in cerca di diritti civili, svolte ambientali, giustizia sociale, non basti affatto cambiare ogni tanto - con il voto o anche con la rivolta - il vertice della piramide.
La piramide, piuttosto, deve essere smontata, perché al suo posto possano nascere forme di autogoverno locale più vicine, più capaci di ascolto, più rapide nell'immaginare e introdurre innovazioni, più attente ai dettagli e alle necessarie correzioni dei cambiamenti intrapresi, nonché, cosa nient'affatto secondaria, più facili da contrastare e ribaltare quando esse non siano più rispondenti alle attese della gente.
Dal 1989 a oggi sono caduti e continuano a cambiare molti regimi, ma una analisi spassionata dovrebbe riconoscere che fra i territori dove si registrano maggior successo sociale e minore violenza, sono proprio quelli in cui, oltre a quello politico, c'è stato anche cambiamento geopolitico, restituendo autogoverno a comunità locali e a bioregioni di scala più ridotta.
Gli stati più piccoli, o quelli dove c'è un effettivo decentramento di ricchezze e di potere, rispondono meglio alle esigenze poste dalla persona umana socialmente mobilitata.
Questo, si badi bene, vale sia per società più ricche (Catalogna, Scozia) o più povere (Corsica, Sardegna); sia per aspirazioni nazionali più antiche (come quelle dei Curdi nei confronti di Iraq, Iran, Turchia e Siria), che per aspirazioni all'autogoverno emerse più recentemente (come quelle dei Berberi nel Maghreb o dei nativi in Amazzonia); per territori remoti (Nuova Caledonia) o per grandi città cosmopolite (Hong Kong).
Varrebbe anche in alcuni altri territori che purtroppo sono tenuti insieme con la forza e la violenza da sinistre forze neocolonialiste e imperialiste straniere, come Somalia, Libia, Congo, Nigeria, Yemen, Afghanistan; situazioni drammatiche che non troveranno redenzione finché continueranno le ingerenze delle grandi potenze.
Deutsch scrisse - nel suo libro del 1970 sopra citato - che di tutte le utopie che si sono rivelate fallaci, ce n'è un tipo particolarmente pericoloso, "davvero il più utopista di tutti": quello che suggerisce che il mondo continuerà ad andare com'è sempre andato.
Pochi avevano previsto la caduta e lo scioglimento del blocco sovietico, proprio come oggi ancora troppi rifiutano pregiudizialmente l'idea che tutti i più grandi e più potenti stati del pianeta, a meno che non vadano incontro alle persone umane e alle loro comunità locali con riforme decentraliste radicali, ne seguiranno la sorte.
Sì, avete capito bene, sto parlando anche di India e Cina, Stati Uniti e Indonesia, Russia e Brasile. Tutti giganti che scopriranno presto di avere i piedi d'argilla, se non accetteranno di restituire dignità, ricchezze e potere alle loro comunità locali.
Sembra incredibile, certo, eppure è probabile, perché il centralismo e l'autoritarismo, il militarismo e il neocolonialismo (interno o esterno) di questi grandi stati è semplicemente incompatibile con la vita materiale e la coscienza spirituale della persona umana socialmente mobilitata e politicamente cosciente.
Tutte queste considerazioni, fondate su studi politologici seri e dopo decenni ancora mai falsificati, può e deve suscitare speranza e incoraggiare all'azione coloro che sono veramente determinati a diffondere e a realizzare l'ideale dell'autogoverno per tutti, dappertutto.

Mauro Vaiani
(blogger di Diverso Toscana,
studioso e attivista decentralista)


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La foto di corredo a questo post è tratta da https://www.thinglink.com/

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