Un discorso diverso in Toscana, per chi crede, in questa nostra madreterra, in questa fugace vita, in qualcosa di diverso

mercoledì 27 aprile 2016

Voglia di indipendenza


Fonte: GoNews - Il presidente Eugenio Giani
con la bella fascia republicana e toscana
che ha fatto disegnare per
i nostri consiglieri regionali



Nella rievocazione della cosiddetta "indipendenza toscana", voluta oggi dal presidente del parlamento toscano, Eugenio Giani, c'è stata più di una sgrammaticatura, ma l'evento rivela qualcosa di importante e di profondo, di cui il bravo politico fiorentino ha compreso da tempo l'importanza.
Le persone hanno voglia di autonomia.
I territori hanno voglia di sovranità.
La Toscana ha davvero voglia di autogoverno.
Questa celebrazione del 27 aprile 1859, il giorno della partenza di Leopoldo II, avrebbe meritato un approfondimento sul modo civile e pacifico con cui avvenne.
In quella giornata, che la stragrande maggioranza dei Toscani di allora guardò con rispetto e forse anche con tristezza, si accese una speranza di autentica indipendenza toscana, magari nella forma di una repubblica veramente democratica, federata con altri stati italiani ed europei.
Le celebrazioni nel parlamento toscano, purtroppo, hanno totalmente oscurato che quella timida speranza di indipendenza fu completamente tradita.
Attraverso la vergogna del plebiscito e altre catastrofi nazionaliste, la Toscana è stata trascinata verso colonialismo, autoritarismo, burocraticismo, una serie infinita di vergogne e infamie.
Delle riflessioni più critiche e più autocritiche sulla gravità della "questione toscana", ci sarebbero state bene.
Lo scriviamo con affetto a Eugenio Giani, consigliere che, in ticket con Stefania Saccardi, abbiamo sostenuto.


domenica 24 aprile 2016

Appello dei 56 costituzionalisti per il NO alla riforma Boschi-Verdini



E' stato reso pubblico in questi giorni di vigilia del 25 aprile 2016, 71° anniversario della Liberazione, questo appello di 56 costituzionalisti. Il documento invita a un attento ripensamento sulla riforma c.d. Boschi-Verdini. Riportiamo qui il testo integrale (rintracciato sul sito de Il Foglio). In particolare l'appello riprende quanto già chiesto, con lungimiranza, da Riccardo Magi e dai Radicali Italiani, ma anche da interventi ripetuti di Michele Ainis, Fulco Lanchester e altri, a proposito delle modalità di svolgimento della consultazione popolare sulla riforma Boschi-Verdini. Si chiede anche qui, con mite ragionevolezza, un voto per parti separate. In caso che il Parlamento non intenda attivarsi in questo senso, automaticamente, come prevedono le norme, si andrà a un voto unico sull'intera legge costituzionale. In questo caso sarebbe, in pratica, un improprio plebiscito, nel quale queste e molte altre persone sarebbero costrette a votare NO, perché i difetti della riforma sono considerati di gran superiori ai pochi elementi positivi.
Secondo la modesta opinione di questo blog, questo appello andrebbe ascoltato.




SULLA RIFORMA COSTITUZIONALE


Di fronte alla prospettiva che la legge costituzionale di riforma della Costituzione sia sottoposta a referendum nel prossimo autunno, i sottoscritti, docenti, studiosi e studiose di diritto costituzionale, ritengono doveroso esprimere alcune valutazioni critiche.

Non siamo fra coloro che indicano questa riforma come l’anticamera di uno stravolgimento totale dei principi della nostra Costituzione e di una sorta di nuovo autoritarismo.

Siamo però preoccupati che un processo di riforma, pur originato da condivisibili intenti di miglioramento della funzionalità delle nostre istituzioni, si sia tradotto infine, per i contenuti ad esso dati e per le modalità del suo esame e della sua approvazione parlamentare, nonché della sua presentazione al pubblico in vista del voto popolare, in una potenziale fonte di nuove disfunzioni del sistema istituzionale e nell’appannamento di alcuni dei criteri portanti dell’impianto e dello spirito della Costituzione.

1. Siamo anzitutto preoccupati per il fatto che il testo della riforma – ascritto ad una iniziativa del Governo – si presenti ora come risultato raggiunto da una maggioranza (peraltro variabile e ondeggiante) prevalsa nel voto parlamentare (“abbiamo i numeri”) anziché come frutto di un consenso maturato fra le forze politiche; e che ora addirittura la sua approvazione referendaria sia presentata agli elettori come decisione determinante ai fini della permanenza o meno in carica di un Governo. La Costituzione, e così la sua riforma, sono e debbono essere patrimonio comune il più possibile condiviso, non espressione di un indirizzo di governo e risultato del prevalere contingente di alcune forze politiche su altre. La Costituzione non è una legge qualsiasi, che persegue obiettivi politici contingenti, legittimamente voluti dalla maggioranza del momento, ma esprime le basi comuni della convivenza civile e politica. E’ indubbiamente un prodotto “politico”, ma non della politica contingente, basata sullo scontro senza quartiere fra maggioranza e opposizioni del momento. Ecco perché anche il modo in cui si giunge ad una riforma investe la stessa “credibilità” della Carta costituzionale e quindi la sua efficacia. Già nel 2001 la riforma del titolo V, approvata in Parlamento con una ristretta maggioranza, e pur avallata dal successivo referendum, è stato un errore da molte parti riconosciuto, e si è dimostrata più fonte di conflitti che di reale miglioramento delle istituzioni.

2. Nel merito, riteniamo che l’obiettivo, pur largamente condiviso e condivisibile, di un superamento del cosiddetto bicameralismo perfetto (al quale peraltro sarebbe improprio addebitare la causa principale delle disfunzioni osservate nel nostro sistema istituzionale), e dell’attribuzione alla sola Camera dei deputati del compito di dare o revocare la fiducia al Governo, sia stato perseguito in modo incoerente e sbagliato. Invece di dare vita ad una seconda Camera che sia reale espressione delle istituzioni regionali, dotata dei poteri necessari per realizzare un vero dialogo e confronto fra rappresentanza nazionale e rappresentanze regionali sui temi che le coinvolgono, si è configurato un Senato estremamente indebolito, privo delle funzioni essenziali per realizzare un vero regionalismo cooperativo: esso non avrebbe infatti poteri effettivi nell’approvazione di molte delle leggi più rilevanti per l’assetto regionalistico, né funzioni che ne facciano un valido strumento di concertazione fra Stato e Regioni. In esso non si esprimerebbero le Regioni in quanto tali, ma rappresentanze locali inevitabilmente articolate in base ad appartenenze politico-partitiche (alcuni consiglieri regionali eletti – con modalità rinviate peraltro in parte alla legge ordinaria - anche come senatori, che sommerebbero i due ruoli, e in Senato voterebbero ciascuno secondo scelte individuali). Ciò peraltro senza nemmeno riequilibrare dal punto di vista numerico le componenti del Parlamento in seduta comune, che è chiamato ad eleggere organi di garanzia come il Presidente della Repubblica e una parte dell’organo di governo della magistratura: così che queste delicate scelte rischierebbero di ricadere anch’esse nella sfera di influenza dominante del Governo attraverso il controllo della propria maggioranza, specie se il sistema di elezione della Camera fosse improntato (come lo è secondo la legge da poco approvata) a un forte effetto maggioritario.

3. Ulteriore effetto secondario negativo di questa riforma del bicameralismo appare la configurazione di una pluralità di procedimenti legislativi differenziati a seconda delle diverse modalità di intervento del nuovo Senato (leggi bicamerali, leggi monocamerali ma con possibilità di emendamenti da parte del Senato, differenziate a seconda che tali emendamenti possano essere respinti dalla Camera a maggioranza semplice o a maggioranza assoluta), con rischi di incertezze e conflitti.

4. L’assetto regionale della Repubblica uscirebbe da questa riforma fortemente indebolito attraverso un riparto di competenze che alle Regioni toglierebbe quasi ogni spazio di competenza legislativa, facendone organismi privi di reale autonomia, e senza garantire adeguatamente i loro poteri e le loro responsabilità anche sul piano finanziario e fiscale (mentre si lascia intatto l’ordinamento delle sole Regioni speciali). Il dichiarato intento di ridurre il contenzioso fra Stato e Regioni viene contraddetto perché non si è preso atto che le radici del contenzioso medesimo non si trovano nei criteri di ripartizione delle competenze per materia - che non possono mai essere separate con un taglio netto - ma piuttosto nella mancanza di una coerente legislazione statale di attuazione: senza dire che il progetto da un lato pretende di eliminare le competenze concorrenti, dall’altro definisce in molte materie una competenza “esclusiva” dello Stato riferita però, ambiguamente, alle sole “disposizioni generali e comuni”. Si è rinunciato a costruire strumenti efficienti di cooperazione fra centro e periferia. Invece di limitarsi a correggere alcuni specifici errori della riforma del 2001, promuovendone una migliore attuazione, il nuovo progetto tende sostanzialmente, a soli quindici anni di distanza, a rovesciarne l’impostazione, assumendo obiettivi non solo diversi ma opposti a quelli allora perseguiti di rafforzamento del sistema delle autonomie.

5. Il progetto è mosso anche dal dichiarato intento (espresso addirittura nel titolo della legge) di contenere i costi di funzionamento delle istituzioni. Ma il buon funzionamento delle istituzioni non è prima di tutto un problema di costi legati al numero di persone investite di cariche pubbliche (costi sui quali invece è giusto intervenire, come solo in parte si è fatto finora, attraverso la legislazione ordinaria), bensì di equilibrio fra organi diversi, e di potenziamento, non di indebolimento, delle rappresentanze elettive. Limitare il numero di senatori a meno di un sesto di quello dei deputati; sopprimere tutte le Province, anche nelle Regioni più grandi, e costruire le Città metropolitane come enti eletti in secondo grado, anziché rivedere e razionalizzare le dimensioni territoriali di tutti gli enti in cui si articola la Repubblica; non prevedere i modi in cui garantire sedi di necessario confronto fra istituzioni politiche e rappresentanze sociali dopo la soppressione del CNEL: questi non sono modi adeguati per garantire la ricchezza e la vitalità del tessuto democratico del paese, e sembrano invece un modo per strizzare l’occhio alle posizioni tese a sfiduciare le forme della politica intesa come luogo di partecipazione dei cittadini all’esercizio dei poteri.

6. Sarebbe ingiusto disconoscere che nel progetto vi siano anche previsioni normative che meritano di essere guardate con favore: tali la restrizione del potere del Governo di adottare decreti legge, e la contestuale previsione di tempi certi per il voto della Camera sui progetti del Governo che ne caratterizzano l’indirizzo politico; la previsione (che peraltro in alcuni di noi suscita perplessità) della possibilità di sottoporre in via preventiva alla Corte costituzionale le leggi elettorali, così che non si rischi di andare a votare (come è successo nel 2008 e nel 2013) sulla base di una legge incostituzionale; la promessa di una nuova legge costituzionale (rinviata peraltro ad un indeterminato futuro) che preveda referendum propositivi e di indirizzo e altre forme di consultazione popolare.

7. Tuttavia questi aspetti positivi non sono tali da compensare gli aspetti critici di cui si è detto.

Inoltre, (grasseto aggiunto da noi, ndr) se il referendum fosse indetto – come oggi si prevede - su un unico quesito, di approvazione o no dell’intera riforma, l’elettore sarebbe costretto ad un voto unico, su un testo non omogeneo, facendo prevalere, in un senso o nell’altro, ragioni “politiche” estranee al merito della legge. Diversamente avverrebbe se si desse la possibilità di votare separatamente sui singoli grandi temi in esso affrontati (così come se si fosse scomposta la riforma in più progetti, approvati dal Parlamento separatamente).

Per tutti i motivi esposti, pur essendo noi convinti dell’opportunità di interventi riformatori che investano l’attuale bicameralismo e i rapporti fra Stato e Regioni, l’orientamento che esprimiamo è contrario, nel merito, a questo testo di riforma.

per il ripensamento della riforma Boschi-Verdini

Aprile 2016


Francesco Amirante, magistrato;
Vittorio Angiolini, Università di Milano Statale;
Luca Antonini, Università di Padova;
Antonio Baldassarre, Università LUISS di Roma;
Sergio Bartole, Università di Trieste
Ernesto Bettinelli, Università di Pavia
Franco Bile, Magistrato
Paolo Caretti, Università di Firenze
Lorenza Carlassare, Università di Padova
Francesco Paolo Casavola, Università di Napoli Federico II
Enzo Cheli, Università di Firenze
Riccardo Chieppa, Magistrato
Cecilia Corsi, Università di Firenze
Antonio D'Andrea, Università di Brescia
Ugo De Siervo, Università di Firenze
Mario Dogliani, Università di Torino
Gianmaria Flick, Università LUISS di Roma
Franco Gallo, Università LUISS di Roma
Silvio Gambino, Università della Calabria
Mario Gorlani, Università di Brescia
Stefano Grassi, Università di Firenze
Enrico Grosso, Università di Torino
Riccardo Guastini, Università di Genova
Giovanni Guiglia, Università di Verona
Fulco Lanchester, Università di Roma La Sapienza
Sergio Lariccia, Università di Roma La Sapienza
Donatella Loprieno, Università della Calabria
Joerg Luther, Università Piemonte orientale
Paolo Maddalena, Magistrato
Maurizio Malo, Università di Padova
Andrea Manzella, Università LUISS di Roma
Anna Marzanati, Università di Milano Bicocca
Luigi Mazzella, Avvocato dello Stato
Alessandro Mazzitelli, Università della Calabria
Stefano Merlini, Università di Firenze
Costantino Murgia, Università di Cagliari
Guido Neppi Modona, Università di Torino
Walter Nocito, Università della Calabria
Valerio Onida, Università di Milano Statale
Saulle Panizza, Università di Pisa
Maurizio Pedrazza Gorlero, Università di Verona
Barbara Pezzini, Università di Bergamo
Alfonso Quaranta, Magistrato
Saverio Regasto, Università di Brescia
Giancarlo Rolla, Università di Genova
Roberto Romboli, Università di Pisa
Claudio Rossano, Università di Roma La Sapienza
Fernando Santosuosso, Magistrato
Giovanni Tarli Barbieri, Università di Firenze
Roberto Toniatti, Università di Trento
Romano Vaccarella, Università di Roma La Sapienza
Filippo Vari, Università Europea di Roma
Luigi Ventura, Università di Catanzaro
Maria Paola Viviani Schlein, Università dell'Insubria
Roberto Zaccaria, Università di Firenze
Gustavo Zagrebelsky, Università di Torino

venerdì 22 aprile 2016

Rallenta Italia?



Il 730 online è emblematico della rovina di questa Repubblica e della presunzione di coloro che vogliono informatizzare senza cambiare, fare innovazione digitale senza toccare le incrostazioni giuridiche e organizzative.
Evidentemente, grazie all'informatica, tanti dati ci sono.
Esistono ancora mezzi e persone operose nelle amministrazioni pubbliche, altrimenti il 730 online, che mette a disposizione centinaia di milioni di dati (peraltro riservati e sensibili) non sarebbe potuto arrivare.
Epperò il 730 online resta un delirio, perché deliranti sono le norme che si affastellano. Inaccettabile resta la pigrizia arrogante di un ceto dirigente pubblico strapagato e tuttavia assolutamente ignorante e improduttivo. Insopportabili restano gli obblighi che si accumulano sulle spalle di pochi milioni di lavoratori (imprenditori, autonomi, dipendenti, precari), mentre le caste di questo paese vivono al di sopra della legge, in mezzo ai privilegi.
Lasciamo qui alcuni interrogativi, ancora sperando che ci siano persone che ci ascoltano, nei palazzi del potere e, in particolare, a Palazzo Chigi, dove si concentra un potere sempre più grande, nelle mani di pochi.

Perché tanti cittadini che hanno credenziali INPS e altre credenziali pubbliche non possono accedere al portale dell'agenzia delle entrate, nonostante si faccia un gran parlare di SPID (sistema pubblico delle identità digitali)?

Perché siamo costretti a completare il modulo 730 online, invece che limitarci a inviare documentazione aggiuntiva? E' evidente che la stragrande maggioranza dei cittadini continuerà ad appoggiarsi al proprio centro di assistenza fiscale.

Perché per il 5x1000 (cinque per mille) competono così tanti ospedali e università pubbliche? Non ricevono già abbastanza fondi da questo stato che insiste a presentarsi così paternalista (e centralista)?

Perché il 2x1000 ai partiti (due per mille) non viene trasformato in una preferenza riservata, da depositare online? E perché a questa quota non possono accedere formazioni politiche e comitati elettorali locali? E' giusto che questa facilitazione valga solo per i partiti che sono entrati in parlamento attraverso sistemi elettorali anti-democratici e incostituzionali, come il Porcellum prima e prossimamente l'Italicum?

Perché il nuovo 2x1000 alle associazioni culturali (nuovo due per mille) è stato inserito così in fretta, senza dare adeguate spiegazioni? Dove è il fantomatico elenco delle associazioni culturali destinatarie di questa donazione? Non sarà l'ennesimo fumo senza arrosto di una amministrazione che ha a più riprese dimostrato improvvisazione e incompetenza?

Aspettiamo risposte, sempre sperando, mai disperando.

PS

Magari viviamo anche un problema personale: 22 anni fa, le persone impegnate nel Movimento per la Democrazia, in collaborazione trasversale con intelligenze di altri movimenti e di tutti i territori italiani, avevano immaginato un fisco "facile, equo, responsabile e solidale", in cui i cittadini non avrebbero più dovuto compilare alcuna dichiarazione... Il 730 online è l'eterogenesi di ciò che avevamo sognato, una mostruosità che ovviamente ci viene venduta come la realizzazione di ciò che avevamo sognato.

lunedì 18 aprile 2016

In onore di un popolo spodestato



Alcuni amici cari mi hanno fatto riflettere su quanto sia stata dura tornare a votare, dopo tanti anni di referendum traditi: acqua pubblica, RAI privata, basta soldi facili ai partiti, abolizione ministeri, no alle preferenze multiple. Hanno ragione. Il popolo sovrano sarà stato anche disinformato e malguidato, ma ha anche tutto il diritto di sentirsi sfiduciato e spodestato.

Non abbiamo raggiunto il quorum in alcuni territori dove sarebbe stato davvero opportuno, secondo il nostro modesto parere (per esempio qui in Toscana, ma anche in Puglia, Veneto e Friuli). Notiamo, tuttavia, che durante questa campagna contro il "fine concessione MAI", si è ricostruita un'ampia e trasversale rete di amicizia e di fiducia - fortemente critica contro il potere, ma anche conscia che una repubblica più democratica e più federalista non si "trivella" in poche settimane.

Grazie a tutti coloro che hanno voluto onorarmi condividendo la loro speranza, la loro sfiducia, la loro scelta finale.

Per rinfrescarsi la memoria su quanti referendum siano stati traditi dal potere centralista e conformista, consigliamo questo articolo dall'archivio di Radio radicale (e da dove, sennò?).

Mi spiace che il governo non abbia tenuto un atteggiamento più costruttivo prima e più neutrale durante la campagna referendaria. Spero sempre che si recuperi un pochino di senso critico e auto-critico.


Un grazie sincero a Michele Emiliano, che si è fatto samaritano e cireneo di alcuni buoni principi, difendendoli con passione e con onore.

PS

Spigolature fra noi toscani: Livorno e Firenze le due province con più alta affluenza alle urne; Campo nell'Elba e, curiosamente, Rignano sull'Arno, fra i comuni dove si è votato di più.

domenica 17 aprile 2016

Vittoriosi in Campania e in Calabria


Stasera pare che i seguaci di uno stile "Ruini", cialtrone e arrogante, abbiano vinto la giornata. A loro, però, oltre che a tanti smemorati e ignavi, occorre continuare a ricordare perché ogni campagna astensionistica è intrinsecamente sbagliata, moralmente e non solo politicamente. Andare a votare durante una campagna astensionistica vuol dire farsi vedere e contare, vuol dire esporsi. Noi in Toscana lo facciamo oggi con una qualche generale serenità (anche se non tutti e non dappertutto, sia chiaro). Ma fuori dalla Toscana?





giovedì 14 aprile 2016

L'avvenire dei lavoratori e il voto SI




Mentre la campagna astensionista continua imperterrita a proporre ragionamenti pretestuosi e fumosi, a eludere problemi, a diffondere cifre false, a nascondere la porcheria del "fine concessione MAI", noi onoriamo l'impegno per il SI della più antica testata socialista italiana, che, guarda caso, è sopravvissuta in Svizzera, terra di libertà e di pluralismo culturale e territoriale:

L'AVVENIRE DEI LAVORATORI
La più antica testata della sinistra italiana, www.avvenirelavoratori.eu
Organo della F.S.I.S., organizzazione socialista italiana all'estero fondata nel 1894
Sede: Società Cooperativa Italiana - Casella 8965 - CH 8036 Zurigo
Direttore: Andrea Ermano

Coloro che non sono ancora convinti di votare SI, si leggano:
http://politica.avvenirelavoratori.eu/2016/04/litalia-non-si-trivella.html

Qui in calce riproduciamo - pressoché integralmente con la sola esclusione delle immagini - l'ultima edizione della loro sempre interessante newsletter.

Buona lettura! Questa è cultura. Questa è politica.

E buon voto!


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L'AVVENIRE DEI LAVORATORI
La più antica testata della sinistra italiana, www.avvenirelavoratori.eu
Organo della F.S.I.S., organizzazione socialista italiana all'estero fondata nel 1894
Sede: Società Cooperativa Italiana - Casella 8965 - CH 8036 Zurigo
Direttore: Andrea Ermano

> > >  PDF scaricabile su http://issuu.com/avvenirelavoratori < < <
e-Settimanale - inviato oggi a 45964 utenti – Zurigo, 14 aprile 2016
  
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IPSE DIXIT

Non si tratta - «Non si tratta di enfatizzare quello che non sarà un muro invalicabile. Non sarà la muraglia cinese. Ma il suo valore simbolico è quello che straccia gli accordi di Schengen. Non è la frontiera con un Paese in guerra. Non è la frontiera con una Paese incapace di garantire la sua circolazione interna. È la frontiera con un Paese fondatore dell’Europa, come è l’Italia. Le accuse sulla gestione non facile dell’arrivo dei migranti… ci potranno anche stare. La chiusura di una frontiera è uno schiaffo in faccia dato da chi lezioni storiche non ne può certo dare». – Enrico Mentana

   
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    L'AVVENIRE DEI LAVORATORI contribuisce da oltre 115 anni a tenere vivo l'uso della nostra lingua presso le comunità italiane nel mondo tra quelle persone che si sentono partecipi degli ideali socialisti-democratici di Giustizia e Libertà.
    
    
EDITORIALE

Ma non basta limitare
le trivelle in Italia

Ci sono trivelle vicine e trivelle lontane. Una vittoria dei sì nel referendum del 17 aprile ridurrebbe il rischio di incidenti petroliferi vicino alle nostre coste, sarebbe un incoraggiamento per chi cerca di ostacolare le estrazioni nel resto del mondo e sarebbe un granello di sabbia nella macchina internazionale dei combustibili fossili.

di Marco Morosini

"Sappiamo che la tecnologia basata sui combustibili fossili, molto inquinanti – specie il carbone, ma anche il petrolio e, in misura minore, il gas – deve essere sostituita progressivamente e senza indugio", ha scritto Papa Francesco (Laudato si’, 165). La preoccupazione per le trivelle vicine però non deve far dimenticare quella per le trivelle lontane, ben più temibili. Contro la loro proliferazione una coalizione di associazioni scientifiche, ambientaliste e religiose hanno protestato il 5 aprile a Pau, nel Sud-Ovest della Francia, contro il convegno delle industrie petrolifere per promuovere l'estrazione di idrocarburi dai fondali oceanici (MCEDD - Marine, Construction and Engineering Deepwater Development).
    Le gigantesche trivelle degli oceani sono prodigi d'ingegneria, capaci di perforare i fondali oceanici fino a 3000 metri di profondità. La più potente di esse supera i 3000 di profondità oceanica, costa qualche miliardo e mira a decine di miliardi di profitti. Una trivella più piccola, la Deepwater Horizon è stata condannata a 20 miliardi di risarcimento di una parte dei danni che ha provocato nel 2010 nel Golfo del Mexico .
    Secondo The Economist (4 maggio 2013), infatti, "sembrano un non-senso" gli investimenti di centinaia di miliardi di dollari per sviluppare le estrazioni di idrocarburi negli oceani e altrove. "O i governi non sono credibili nell'impegno contro i cambiamenti climatici, oppure le compagnie degli idrocarburi sono sopravvalutate". Il loro valore infatti è determinato dal volume dei loro giacimenti. Le azioni delle prime 200 compagnie di carbone, petrolio e gas erano valutate complessi­vamen­te a 7000 miliardi di dollari nel 2011. Nelle principali borse del mondo dal 20 al 30 per cento dei valori trattati sono collegati agli idrocarburi. A essi va aggiunto il valore dei giacimenti delle grandi compagnie di Stato. Se 80 per cento degli idrocarburi dovesse rimanere nel sottosuolo, come molti raccomandano, essi diverrebbero "unburnable carbon" (carbonio non bruciabile). Sarebbero quindi uno "stranded asset" (patrimonio incagliato), una gigantesca "carbon bubble" (bolla del carbonio), capace di mandare in bancarotta diverse compagnie petrolifere, rovinando piccoli e grandi investitori (fondi pensione, fondi statali, assicurazioni) e sconvolgendo l'economia mondiale.
    L'analista finanziario James Leaton dirige il think-tank (centro-studi) londinese Carbon Tracker, che studia la "carbon bubble". Secondo Leaton: "Le bolle si formano perché ognuno pensa di essere il miglior analista e di potersi spingere fino all'orlo del precipizio, fermandosi quando gli altri vanno avanti." I climatologi, dal canto loro, ci dicono che se l'estrazione di carbone, petrolio e gas non diminuisse drasticamente, la loro combustione accelererebbe il cambiamento climatico già in atto, con nefaste conseguenze ecologiche, sociali, politiche e, infine, anche economiche. Se gli analisti finanziari e quelli del clima hanno ragione, sembra difficile evitare il dissesto ecologico senza provocare un dissesto finanziario, e viceversa.
    La minaccia ecologica e finanziaria dei combustibili fossili è riassunta in tre numeri: 2, 2800, 570.
    2 gradi centigradi è l'aumento di temperatura globale che la comunità internazionale ha deciso di cercare di non superare, per evitare conseguenze troppo gravi. Ma quando troppo è troppo? I 2° sono un compromesso politico, non un limite naturale. Il compromesso è tra, da una parte, i governi dei Paesi che più rischiano per i cambiamenti climatici, per esempio quelli delle piccole isole poco elevate, che già oggi vedono salire il livello di un mare che potrebbe presto danneggiarle o in parte sommergerle, e, dall'altra, i governi dei Paesi che vivono della vendita di petrolio o che hanno un tenore di vita vorace d'idrocarburi. Non ci sono "soglie" di temperatura, perché i danni da cambiamenti climatici aumentano gradualmente con il riscaldamento globale. Già l'aumento di 0,8° dell'ultimo secolo molto probabilmente ha causato siccità, desertificazione, perdita di raccolti, migrazioni, scioglimenti di ghiacci montani, artici e antartici, lieve innalzamento dei mari.
    Il secondo numero importante è 2800 Gt (gigatonnellate, ovvero miliardi di tonnellate) di CO2. Questa è la quantità che sarebbe emessa se si bruciassero tutte le riserve d'idrocarburi conosciute.
    Il terzo numero è 570 Gt di CO2. Si tratta del cosiddetto "carbon budget", la quantità di emissioni che l'umanità può ancora "spendere" (cioè emettere) per avere una probabilità dell'80 per cento di non superare i 2° di riscaldamento del pianeta. Questi numeri sono stimati attraverso decine di modelli matematici sempre più precisi. Essi hanno un margine di errore e di probabilità, ma questi non cambiano sostanzialmente il loro preoccupante significato. Lo stesso vale anche per il valore di circa 6° del probabile aumento di temperatura media globale se le emissioni di CO2 continuassero ad aumentare ogni anno del 3 per cento, come avvenuto in media nell'ultimo decennio. Per questo sempre più scienziati e organizzazioni raccomandano di rinunciare all'estrazione di almeno l'80 per cento delle riserve accessibili d'idrocarburi.
    I combustibili fossili saranno gradualmente abbandonati non a causa del loro esaurimento, ma per motivi economici e politici. Da una parte, il loro costo (ricerca, estrazione, e danni ambientali) tende a salire, mentre quello delle energie rinnovabili tende a scendere. Dall'altra, ci si aspetta che la comunità internazionale e i governi penalizzino l'uso dei combustibili fossili (per esempio diminuendo le loro enormi sovvenzioni e tassando le emissioni di CO2) e promuovano (anche con sovvenzioni temporanee) le energie rinnovabili.
    Questi processi sono però insufficienti perché lentissimi. Come ha detto Papa Francesco parlando in Bolivia "il futuro dell'umanità non è solo nelle mani dei grandi leader, delle grandi potenze e delle élite. È soprattutto nelle mani dei popoli; nella loro capacità di organizzarsi".
    Ma cosa possono fare i popoli? Cosa posso fare io? Primo, posso eleggere e incalzare rappresentanti politici che accelerino decisamente la transizione verso le energie rinnovabili. Secondo, posso cercare modificare e ridurre i miei consumi, perché quasi tutti i prodotti e i servizi usano e sprecano petrolio. In effetti, un eventuale freno alle trivellazioni vicino alle nostre coste non risparmierebbe petrolio, anzi ne consumeremmo di più per muovere le navi che lo portano da altri continenti. Se non ne riducessimo il consumo, sarebbe allora meglio estrarre "petrolio a chilometro zero" in Italia, evitando il petrolio lontano che scatena guerre e colpi di Stato, come in Medio-Oriente e altrove, e che causa ecocidi e devastazioni umane, come in Nigeria, in Equador e altrove. Difendersi dalle trivelle costiere solo nel nostro cortile, senza ridurre il nostro consumo di petrolio non basta.

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Politica

RIFORME IN STILE “TEMPA ROSSA”

di Felice Besostri *)

Nella mia prima e unica esperienza parlamentare nella XIII legislatura fui assegnato alla Prima Commissione “Affari Costituzionali” del Senato in quanto ricercatore confermato di diritto costituzionale italiano e comparato. Con l’entusiasmo del neofita quando presentavo in commissione emendamenti aggiungevo la motivazione, cioè a cosa serviva e quali problemi intendeva risolvere. Nella stampa degli atti, però la motivazione scompariva. Ho chiesto spiegazioni ai funzionari e mi spiegarono che si era sempre fatto così. Poi mi fu fatto capire che avrei messo in imbarazzo i miei colleghi e che non stava bene darsi delle arie. La mia fonte di ispirazione era stata la Spagna democratica dove a ogni testo di legge era premesso Motivos de la ley, così che la cosiddetta volontà del legislatore fosse chiara a tutti e non solo agli esperti costituzionalisti.
    Col senno di poi avrei dovuto insistere, così chi avesse voluto presentare emendamenti del tipo “Tempa Rossa” avrebbe dovuto motivarli: forse ci sarebbe stato da ridere, perché le motivazioni vere non sarebbero mai state scritte.
    Sono stato relatore di disegni di legge importanti, per cinque anni ho avuto la responsabilità della legge comunitaria che doveva dare attuazione alle direttive comunitarie. Poco alla volta cominciai a capire il ruolo di essere relatore: si doveva tener conto degli equilibri politici complessivi e della posizione del governo. Sia chiaro anche che un emendamento non poteva passare se il relatore dava parere contrario. Un emendamento ha bisogno di avere a disposizione un progetto di legge di sicura approvazione, tipo il mille proroghe o, una volta, la legge finanziaria. Non basta che un emendamento sia “giusto”, occorre che sia anche “tempestivo”. A distanza di anni devo confessare che approfittai del mio potere di relatore, quando si trattò di dare attuazione alla direttiva sull’igiene alimentare.
    Amo i prodotti tipici della nostra Italia e mi resi conto che se la direttiva passava così com’era, i formaggi di fossa e il lardo di Colonnata sarebbero stati condannati alla sparizione, come tanti altri prodotti lavorati non in contenitori inox in laboratori senza pavimenti in linoleum. Allora introdussi un emendamento per cui, quando determinati metodi di conservazione e lavorazione fossero essenziali per le qualità organolettiche di un prodotto, si potesse derogare ad alcune prescrizioni. Passò senza problemi, si continuò a fare formaggi nelle malghe di alta montagna anche se non avevano due bagni eccetera.
    In un sistema bicamerale bisognava sapere in quale ramo del Parlamento presentarlo. Una volta, quando i presidenti erano più esperti, la loro struttura vigilava sugli emendamenti respinti da un ramo del Parlamento affinché non rispuntassero nell’altro: con Tempa Rossa non è successo.

In una assemblea di presentazione delle ragioni del NO al referendum costituzionale, un cittadino anziano mi ha chiesto di spiegargli cosa significasse l’ultimo periodo del terzo comma dell’art. 39 che recita: “Restano validi ogni effetto i rapporti giuridici, attivi e passivi, instaurati anche con i terzi”.
    Ho risposto che una norma del genere non c’entra nulla con una Co­sti­tuzione sia pure come norma transitoria e finale. Siamo all’as­sur­do. Sono sicuro che l’ex ministro Guidi non c’entra con questo emen­da­men­to (costituzionale!): non sento in quelle parole odor di petrolio, ma c’è sicuramente una responsabilità del governo e della ministra Boschi. Non è mai passato un emendamento senza il consenso del Governo, visto che è suo il ddl costituzionale.
    Qualcuno che se ne intende mi ha sussurrato che se quella norma ve­nisse stralciata, io mi sarei giocato il vitalizio… Io dico che a mag­gior ragione questa “deforma costituzionale” va combattuta e battuta. E la battaglia in difesa della Costituzione vale per me più del vitalizio.
    È un grave scandalo. Non ho approfondito chi abbia introdotto la norma, non presente nel testo iniziale, ma intendo qui lanciare un appello alla decenza. E, ciò facendo, mi richiamo agli artt. 54 e 67 della Costituzione per i quali “i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina e onore” e “ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione”.
    
    
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SPIGOLATURE 

Prima dell'ipocrisia
mascherata da ragion di stato

di Renzo Balmelli 

BUIO. Alzare muri non fermerà l'esodo dei profughi, ma il rifiuto dell'accoglienza che sotto la spinta delle bacate ideologie xenofobe sta ormai raggiungendo livelli parossistici ci fa compiere un viaggio all'indietro nel buio della notte. Nel solco dell'ignobile deriva si arriva così al punto di strumentalizzare in modo indegno le parole di Mattarella quando esorta ad aprire le frontiere per valorizzare il vino italiano nel mondo. Speculare sulla sorte dei profughi usando a mo' di grimaldello, come ha fatto Salvini, un italico prodotto di eccellenza è una operazione di bassissima "lega" al limite del vilipendio che concorre però ad aizzare gli istinti più riposti anziché contribuire ad affrontare le grandi difficoltà legate all'emergenza dei migranti ascoltando la voce del cuore prima dell'ipocrisia mascherata da ragion di stato.

DEBOLEZZA. Andare a Lesbo tra i profughi è costato al Papa l'avversione della destra reazionaria che ormai lo considera "venduto al nemico" (chissà quale?) e al servizio del comunismo. Al di là della ridicola insinuazione, l'offensiva contro Francesco rappresenta però la spia di un atteggiamento che non arretra di fronte a nulla pur di rimestare nel torbido. E' un'altra risposta sbagliata al drammatico problema dei richiedenti l'asilo, altrettanto riprovevole della barriera anti-migranti voluta dall'Austria sul Brennero. Con questa iniziativa - afferma la senatrice del Pd Laura Puppato – l'Europa muore. Quel reticolato è una grave ferita alla solidarietà europea che mette in discussione l'essenza stessa della Comunità pensata dai padri fondatori. Dividere denota una fatale debolezza politica.

POTENZA. Per uscire dalla crisi dei valori che ne turba l'esistenza, all'Unione Europea serve un altro e alto progetto capace di riconquistare la fiducia dei cittadini. A tale proposito è illuminante il contributo col quale la pagina culturale del Corriere della Sera presenta il libro “Da fuori. Una filosofia per l'Europa” (Einaudi) di Roberto Esposito, docente di filosofia alla Normale di Pisa. L'autore, consapevole che il Vecchio Continente vive una fase di smarrimento, suggerisce di dare vita a un diverso pensiero all'interno di una nuova prospettiva filosofica nel solco della tradizione italiana che va da Machiavelli a Gramsci, passando per Gian Battista Vico. Ciò che il volume propone è un percorso affascinante per fare dell'Europa dei popoli – citiamo – una “grande potenza civile”. Ne vale la pena!

RUOLO. Mentre l'America si prepara a scegliere un nuovo Presidente, sul tavolo di colui che è ancora in carica senza essere, come si ostinano a dire i suoi detrattori, una "anatra zoppa" è arrivato l'incartamento forse più drammatico del suo mandato. Nell'ultimo scorcio dei suoi otto anni alla Casa Bianca, Obama si trova proiettato, a causa delle insidie che pesano sulla sicurezza, alla vigilia della scelta più difficile di politica internazionale. Nei mesi che gli rimangono dovrà affrontare la terribile minaccia che incombe sull'Occidente in seguito all'esplosiva miscela dell'Isis, della tragedia siriana e delle ondate migratorie. Calendario alla mano il tempo stringe e dallo statista dello "yes we can" si attende un colpo d'ala che gli consenta di ritagliarsi un ruolo da protagonista sull'onda della storia di oggi e domani.

TORNELLI. D'accordo i massimi sistemi. Ma poi fa sorridere l'idea che Hillary Clinton e Bernie Sanders non perdano occasione di punzecchiarsi a vicenda sulla loro capacità di muoversi coi mezzi pubblici. Quella che è già stata definita la "disfida della metropolitana" non poteva che svolgersi a New York dove la conoscenza della chilometrica rete della ferrovia sotterranea da parte dei due contendenti è apparsa piuttosto lacunosa. Di fronte alla contro-prestazione viaria si è divertita tutta la metropoli, cuore pulsante di uno Stato, quello di New York appunto, prevalentemente democratico che quest'anno avrà un peso rilevante per la scelta del candidato alla volata finale delle presidenziali. L'ex first lady guida i sondaggi, ma l'imbarazzo davanti ai tornelli può costarle qualche simpatia poiché anche questa, come si usa dire, "è la democrazia bellezza!".


   
        
LAVORO E DIRITTI
a cura di www.rassegna.it

«In Italia aborto troppo difficile»

Il Consiglio d'Europa accoglie il ricorso Cgil. La pronuncia sull'applicazione inadeguata della legge 194. Le donne nel nostro paese incontrano "notevoli difficoltà" nell'accesso ai servizi per l'interruzione della di gravidanza. "Discriminati i medici non obiettori". Camusso: "Sentenza importante"

Le donne in Italia continuano a incontrare “notevoli difficoltà” nell'accesso ai servizi d'interruzione di gravidanza, nonostante quanto previsto dalla legge 194 sull'aborto. L'Italia viola quindi il loro diritto alla salute. Lo ha affermato il Consiglio d'Europa, pronunciandosi su un ricorso presentato dalla Cgil. In particolare, il nostro Paese discrimina medici e personale medico che non hanno optato per l'obiezione di coscienza in materia di aborto, vittime di "diversi tipi di svantaggi lavorativi diretti e indiretti".
    A tre anni di distanza dal Reclamo collettivo (n. 91 del 2013) da parte della Cgil, la decisione di merito è stata finalmente resa pubblica dopo il lungo periodo di embargo. È stata anche accertata la violazione dei diritti dei medici non obiettori di coscienza, a causa dell’elevato e crescente numero di medici obiettori di coscienza e della disorganizzazione degli ospedali e delle Regioni, che dunque affrontano un insieme di svantaggi sul posto di lavoro sia diretti sia indiretti, in termini di carico di lavoro e prospettive di carriera. La sentenza risale al 12 ottobre 2015, ma è stato possibile renderla nota soltanto oggi alla scadenza dell'embargo che poteva essere interrotto soltanto dal governo italiano, cosa che purtroppo non è avvenuta.
     “Una sentenza importante – commenta il segretario generale della Cgil, Susanna Camusso – perché ribadisce l'obbligo della corretta applicazione della legge 194, che non può restare soltanto sulla carta. Il sistema sanitario nazionale deve poter garantire un servizio medico uniforme su tutto il territorio nazionale, evitando che la legittima richiesta della donna rischi di essere inascoltata. Questa decisione del Consiglio d’Europa riconferma che lo Stato deve essere garante del diritto all'interruzione di gravidanza libero e gratuito affinché le donne possano scegliere liberamente di diventare madri e senza discriminazioni, a seconda delle condizioni personali di ognuna”.
    La legge 194/1978, infatti, prevede che, indipendentemente dalla dichiarazione di obiezione di coscienza dei medici, ogni singolo ospedale e le Regioni debbano sempre garantire il diritto di accesso all’interruzione di gravidanza delle donne. Oggi purtroppo, a causa dell’elevato e crescente numero, come dimostrano i dati forniti dalla Cgil nell’ambito del giudizio davanti al Comitato Europeo, di medici obiettori, molte strutture si trovano a non avere all’interno del proprio organico un numero adeguato di medici che possono garantire l’effettiva e corretta applicazione della legge.
    Il riconoscimento di queste violazioni, a distanza di ormai due anni dalla prima condanna del Comitato Europeo nei confronti dell’Italia (decisione dell’8 marzo 2014 sul Reclamo collettivo n. 87 del 2012 presentato dall’organizzazione internazionale non governativa International Planned Parenthood Federation European Network), è una vittoria per le donne e per i medici, ma anche per l’Italia: essa costituisce un’importante occasione affinché si prenda finalmente coscienza dei problemi concreti di applicazione della disciplina (definita dalla Corte costituzionale quale regolamentazione irrinunciabile), finora del tutto disconosciuti dal ministero della Salute. La Cgil è stata assistita dagli avvocati Marilisa D’Amico (ordinario di Diritto costituzionale, Università degli Studi di Milano) e Benedetta Liberali, ed ha avuto il sostegno della Confederazione europea dei sindacati.
   
    
ECONOMIA

Usa: vera ripresa o
nuove bolle finanziarie?

Negli Usa ritorna la paura di nuove bolle simili a quella legata ai mutui subprime che nel 2008 innescò la crisi finanziaria globale.

di Mario Lettieri, già Sottosegretario all'economia (governo Prodi)
e Paolo Raimondi, Economista

All’origine di questa lunga crisi economico-finanziaria accadde negli USA che molti mutui erano stati concessi senza tenere in considera­zione la reale capacità di pagamento di molti sottoscrittori. In seguito i titoli collegati furono utilizzati come base per altre operazioni ad alto rischio, i derivati finanziari. La montagna di titoli virtuali, così creata, crollò su se stessa quando la percentuale dei mancati pagamenti e dei fallimenti individuali divenne insostenibile.
    Ormai è storia nota.
    Situazioni simili però si stanno ricreando anche oggi in vari settori economici, tra cui quello delle vendite di automobili e quello delle carte di credito. Anche in questo caso gli Usa precedono, indicano la strada che, anche se pericolosa, l’Europa non esita a percorrere.
    Negli anni passati chi ha acquistato un’auto lo ha fatto a debito. Così negli Usa gli acquirenti sono diventati ‘parte’ della tanto sbandierata ripresa economica americana. La domanda, si è detto, è ripartita: il cavallo è tornato a bere. Il totale dei prestiti per l’acquisto di automobili ha raggiunto il trilione (mille miliardi) di dollari.
    Le banche e altri mediatori finanziari anche in questo caso hanno ‘impacchettato’ tali debiti in apposite obbligazioni che sono state vendute sul mercato. Sulle stesse si sono moltiplicati i vari strumenti finanziari anche per darne copertura assicurativa.
    Intanto, i media statunitensi hanno cominciato a evidenziare che un numero crescente di acquirenti non è in grado di pagare le rate. Alcuni istituti finanziari hanno registrato un ritardo di pagamento di oltre 30 giorni per almeno il 12% dei prestiti da loro concessi. Anzi, per il 2,6% degli stessi è già stata attivata la procedura di fallimento e di sequestro del veicolo.  
    Ancora una volta sono le agenzie di rating a valutare la sostenibilità delle obbligazioni e degli asset-backed security (derivati) emessi dalle banche sulla base dei mutui accesi per l’acquisto di auto. Fitch Ratings riporta che i titoli ‘impacchettati’ nei passati cinque anni con un ritardo di pagamento di 60 giorni hanno raggiunto complessivamente il livello del 5,16%. Il più alto degli ultimi vent’anni.
    Alla luce dei dati succitati si può dire che le vendite record di auto non riflettono il vero andamento dell’economia americana. Tutt’al più rappresentano il più facile accesso al credito per l’acquisto di automobili.
    Altro settore delicato ci sembra quello delle carte di credito. Anche in questo settore il debito sta raggiungendo nei soli Stati Uniti il livello di un trilione di dollari. Nell’ultimo trimestre del 2015 vi è stata un’impennata che ha superato la crescita totale avvenuta nel triennio 2009-2011. E’ il caso di sottolineare che nel solo ultimo trimestre dell’anno scorso l’incremento è stato di ben 52 miliardi.
    Purtroppo il rischio di una bolla si profila anche per i crediti concessi agli studenti. Sono prestiti garantiti dallo Stato che devono essere ripagati durante la futura vita lavorativa da chi ne ha usufruito nel periodo universitario. Si stima che l’ammontare complessivo sia oggi ben oltre il trilione di dollari e che potrebbe raggiungere i 3,3 trilioni entro il 2024.
    Naturalmente il timore è dovuto al fatto che anche su questi prestiti le banche hanno emesso una serie di titoli abs il cui valore è strettamente legato al flusso di cassa dei rimborsi continui. Questa situazione si sta aggravando tanto che il tema è diventato oggetto della campagna presidenziale in corso.
    In verità la lista potrebbe essere più lunga perché vi sono tante altre ‘piccole’ bolle. Trattasi comunque di trilioni anche se non di centinaia di trilioni come per i derivati otc.
    Sono dati che cominciano ad essere oggetto di valutazione e di discussione da parte degli addetti. Considerati i riverberi che oggettivamente la finanza globalizzata può determinare nei singoli Paesi, sarebbe opportuno che le autorità di governo e di vigilanza nazionali e internazionali vi prestassero adeguata attenzione. A partire dal nostro Paese, dove, come è noto, il problema dei crediti deteriorati e delle sofferenze per 200 miliardi di euro è di prima grandezza.
    
    
Da Avanti! online

VERSO IL REFERENDUM

Pia Locatelli: “La legge di riforma costituzionale non è quella voluta dai socialisti: non lo è nei contenuti, e non lo è per il metodo. Ancora una volta, ribadiamo che sarebbe stato senza dubbio meglio adottare la strada maestra di un’Assemblea costituente”.

di Ginevra Matiz

Con 361 sì e 7 no la Camera, ha approvato il ddl Boschi sulla riforma della Costituzione. Non hanno votato i deputati dell’opposizione che sono usciti dall’Aula. “Dopo due anni di lavoro, il Parlamento ha dato il via libera alla riforma costituzionale! Grazie a quelli che ci hanno creduto” Scrive su Twitter il ministro delle Riforme Maria Elena Boschi. Ora manca solo la conferma referendaria.
    Ieri Renzi ha detto che sulle riforme è pronto a giocarsi tutto, e oggi le opposizioni hanno risposto dicendosi pronte a dar battaglia. L’ultima. Una battaglia simbolica visto che alla Camera il Governo poggia su una solida maggioranza che la mette al riparo da ogni rischio. Per questo le opposizioni, già prima del voto, hanno annunciato che non faranno ostruzionismo ma si limiteranno a uscire dall’Aula. E così hanno fatto. In Aula quindi è rimasta solo la maggioranza che sostiene il governo più i verdiniani di Ala.
     “Alcuni protagonisti della secessione da Montecitorio evocano l’Aventino. Eviterei paragoni impropri” ha sottolineato Riccardo Nencini, segretario del PSI, che ricorda: “Allora era stato ucciso Matteotti e socialisti, liberali e popolari disertarono la Camera come manifestazione di condanna verso Mussolini. Oggi disertano ex missini, parlamentari che, almeno una volta, hanno votato a favore della riforma del Senato, ex comunisti, e tutti compatti dietro la felpa di Salvini. L’Aventino fu proprio un’altra cosa.”- ha concluso Nencini.
    Per il Psi è intervenuta in Aula Pia Locatelli, Capogruppo della componente socialista. “Come abbiamo già detto in diverse occasioni – ha detto – la legge di riforma costituzionale, oggi al sesto ed ultimo passaggio parlamentare, non è propriamente quella voluta dai socialisti: non lo è nei contenuti, migliorati, comunque, nei diversi passaggi tra Camera e Senato, e non lo è per il metodo. Il metodo, appunto: ancora una volta, ribadiamo che sarebbe stato senza dubbio meglio adottare la strada maestra di un’Assemblea costituente, che, svincolata dall’esame di altri provvedimenti, avrebbe potuto dedicare più tempo e andare più in profondità in un clima complessivo di maggiore serenità, pur senza escludere il confronto, anche aspro”.

       
   
Da l’Unità online

L’ultimo leninista


Dopo la morte prematura di Gianroberto Casaleggio il brand
“M5s” resta forte, ma perde l’unica testa pensante

di Fabrizio Rondolino - @frondolino

“Ad un certo punto pensai di fare a meno di lui, e me ne sono pentito”: Antonio Di Pietro, che di Gianroberto Casaleggio era anche uno degli avvocati, ricorda l’amico scomparso con una punta di rammarico che conferma e rafforza la fama del santone della Rete capace, con la sue sole capacità di web marketing, di creare dal nulla un partito e portarlo al trionfo elettorale. È tuttavia improbabile che l’Italia dei valori avreb­be avuto lo stesso successo del M5s se avesse continuato a giovarsi della collaborazione di Casaleggio; più ragionevole credere che sia sta­to invece Casaleggio, dopo un primo tentativo con Di Pietro, a cercarsi un altro avatar attraverso il quale conquistare il potere: Beppe Grillo.
    Entrambi tuttavia – il magistrato che ha messo a nudo i delitti della Casta e il comico che l’ha sbeffeggiata per trent’anni – hanno in comune un tratto essenziale dell’ideologia casaleggiana: nel partito moderno, che obbedisce scrupolosamente alle regole della pubblicità e del marketing, il leader è sostituito dal testimonial, il quale è chiamato a recitare un copione scritto da altri ed è in grado di inverare, esclusivamente grazie alla propria biografia, il programma di cui è portatore passivo. Non c’è alcun contenuto nel M5s: e la grandezza di Casaleggio sta nell’aver capito per primo che per la politica contemporanea il contenuto è soltanto un peso e un intralcio agli acquisti, e l’unica cosa che interessa al consumatore-elettore è il brand, l’identità, l’appartenenza ad un gruppo coeso e omogeneo. Steve Jobs ha costruito le fortune della Apple su un modello di marketing analogo, che spinge i consumatori a ricomprare sempre gli stessi oggetti, lievemente rinnovati, per riconfermare la propria appartenenza ad una comunità esclusiva.
    Dal punto di vista organizzativo, il M5s somiglia molto ad un classico partito leninista novecentesco: c’è una base ristretta di seguaci pronti a tutto (quelli che un tempo si chiamavano rivoluzionari di professione), c’è un potente sistema di comunicazione (i comunisti lo chiamavano agit-prop) e c’è una leadership carismatica e inamovibile (il segretario generale conclude contemporaneamente l’incarico e la vita): su questo modello, Casaleggio ha innestato da un lato l’aggressività del marketing digitale, capace di unificare il pulviscolo di storie, interessi, rancori e speranze che agita una parte di società, e dall’altro la potenza semplificatoria dell’insulto, il mantra identitario che consolida la comunità e la distingue dalle altre. Più che interrogarsi sulla grandezza di Casaleggio, bisognerebbe forse riflettere sulla permeabilità assoluta della nostra società politica e sulla deriva dell’opinione pubblica.
    Il tratto antimoderno, per non dire reazionario, dell’ideologia ca­sa­leggiana sta proprio qui, in questo ostinato rifiutare la complessità del Moderno, che porta con sé la tolleranza come strumento di sopravvi­ven­za e la continua revisione delle idee come motore dello sviluppo, per rifluire invece in una visione settaria, integralista, medievale, dove il Bene e il Male si confrontano nella loro immutabile fissità.
    Intollerante e ottuso il M5s lo è per natura, e non c’è bisogno di ri­cordare le centinaia di espulsioni a tutti i livelli (sempre imposte da Ca­sa­leggio) per averne conferma. Resta da capire che cosa succederà ades­so che l’unica testa pensante non c’è più. Il brand resta molto for­te, ma il testimonial appare stanco e i venditori porta a porta sono pron­ti a dilaniarsi per il controllo del partito, mentre l’utopia internet­tiana della trasparenza e della partecipazione non interessa più nessuno.

       
   
Da MondOperaio

Chiese virtuali ?

Le religioni tornano anche da noi protagoniste della dimensione pubblica, ma la secolarizzazione prosegue nello spopolamento delle chiese, un trend originariamente protestante nel quale le vecchie fedi si ripresentano soprattutto come un fatto etico e culturale…

di Danilo Di Matteo

La religione (le religioni), dopo gli anni nei quali la secolarizzazione completa della società sembrava inesorabile, tornano protagoniste della vita pubblica. Nel contempo, per ciò che riguarda la cristianità europea con le sue varie confessioni, continua a diminuire il numero di coloro che frequentano le chiese: come se si invocasse una presenza per lo più mediatica dei leader religiosi, una loro partecipazione e un loro coinvolgimento nello spazio pubblico, senza con ciò impegnarsi attivamente almeno la domenica mattina.
    Il fenomeno non riguarda solo il mondo cattolico. Anche i paesi protestanti per antonomasia del nord-Europa, quelli scandinavi, conoscono una percentuale bassissima di “membri di Chiesa”. Come se il protestantesimo fosse soprattutto un fatto culturale. E in Germania, dove la percentuale di cattolici e di protestanti è simile, i luoghi di culto sono sempre meno affollati.
    Da noi (e pure altrove) papa Francesco rappresenta un punto di riferimento assai importante: si discute sui suoi gesti e su ciò che scrive, è divenuto un vero e proprio simbolo, incarna tenerezza, misericordia, dialogo, amore cristiano. Eppure il numero dei “praticanti” diminuisce ancora. Un effetto del prevalere della dimensione virtuale? Di certo un dato sul quale riflettere, anche per i suoi risvolti in altri ambiti.
       
    
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FONDAZIONE NENNI

Trivelle, perché votare

Tra pochi giorni saremo chiamati a decidere se intendiamo o meno far parte della larga schiera dei cittadini italiani che da sempre considerano l’esercizio del diritto di voto una conquista irrinunciabile o se per scelta o per disinteresse siamo disponibili a farci arruolare nell’esercito dei disertori.

di Silvano Miniati

I disertori usufruiscono di un privilegio che dovrebbe essere rifiutato a priori da qualsiasi democratico. Con il meccanismo elettorale che vincola la validità del referendum al raggiungimento del quorum, si conferisce al cittadino che diserta un doppio potere.
    Infatti, non andando a votare, scelta che la costituzione considera legittima, non solo si decide per se e secondo la propria convinzione, ma quello che invece dovrebbe essere considerato intollerabile si incide anche sula validità o meno del referendum. In base a tela meccanismo, io che voto ho solo la possibilità di esprimere una posizione. Mentre colui che diserta le urne, con l’obbiettivo dichiarato di far mancare il quorum sceglie contro la mia libertà e il mio parere
    Non è esagerato dire che chi accetta l’invito a far mancare il quorum assume un atteggiamento non solo contrario ma anche antidemocratico contro di me che invece decido di partecipare al voto.
    Intanto con questa mannaia del quorum sulla testa, io andrò a votare senza sapere se ciò conterà oppure no.
    Solo a cose fatte e cioè a urne chiuse si saprà se ho esercitato il diritto di voto o se è stata tutta una finzione. Chi parla tanto di riforme costituzionali dovrebbe riflettere su come possono essere rimossi tutti gli impedimenti che oggi impediscono un normale esercizio del diritto di voto.
    Si dovrebbe riflettere sul fatto perché un diritto a esprimere un parere su questioni magari di grande rilievo viene mantenuto in vita o brutalmente cancellato in forza di un voto che certifica se si è superato o meno il cinquanta per cento degli aventi diritto.
    La questione non è affatto di lana caprina e ciò diventa evidente nel momento in cui superare o meno la soglia di validità di un referendum, diventa condizione per il mantenimento in carica di governi.
    Comunque la si pensi, dovrebbe essere chiaro a tutti che andare a votare è non solo un dovere personale, ma anche una necessità per il mantenimento e lo sviluppo di un regime democratico come il nostro.
    Di andare a votare ce lo chiedono i responsabili delle istituzioni del nostro paese: Presidenza della Repubblica e Corte Costituzionale per primi. Fino ad oggi, si è fatto però di tutto per scoraggiare la partecipazione al voto.
    Chi considera questo un fatto preoccupante può correre ai ripari. Siamo il paese della rete, quasi tutti possediamo un telefono e un cellulare. Volendo, possiamo creare le condizioni perché nei prossimi tre giorni partano milioni di messaggi ad amici, parenti conoscenti e cittadini in generale con i quali affermiamo “Io vado a votare, fallo anche tu!”.
    Ognuno potrà votare poi Si, No o scheda Bianca. Tutti assieme potremo gioire per aver fornito una grande prova di civismo e di maturità democratica.
       
       
Da CRITICA LIBERALE
riceviamo e volentieri pubblichiamo

Sconcerto per il “sì” del Veneto
alla legge sull’edilizia di culto

“Una legge sbagliata che aumenterà la ghettizzazione delle comunità religiose di minoranza”, è il commento del pastore Luca Maria Negro, presidente della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI), all’indomani dell’approvazione da parte del Consiglio regionale del Veneto della cosiddetta legge “anti-moschee”.

La legge, rubricata come “Norme per il governo del territorio e in materia di paesaggio”, di fatto ricalca quella lombarda recentemente bocciata dalla Corte costituzionale perché lesiva del principio della libertà di culto (vedi NEV 8/2016). “Un testo – aggiunge sconcertato il pastore Negro - che comprende norme che limitano drasticamente la possibilità di aprire luoghi di culto e quindi violano il fondamentale principio costituzionale che riconosce la libertà delle pratiche religiose sia in privato che in pubblico”.
    Tra le norme della nuova legge quella che tra l’altro impone che i luoghi di culto possano essere aperti solo in aree, generalmente periferiche, destinate a “infrastrutture”. “La conseguenza è che invece di promuovere l’integrazione e lo scambio interculturale e interreligioso tra i musulmani e la comunità che li circonda – prosegue ancora il presidente FCEI -  con questo provvedimento si favorisce la crescita di aree chiuse, autoreferenziali e distaccate dal tessuto sociale della città. E’ una scelta miope e irrazionale, compiuta sull’onda di un pregiudizio che mina il pluralismo religioso e distrugge il cammino compiuto in questi anni per tutelare la libertà di culto di tutte le minoranze. Noi evangelici denunciamo questo provvedimento che limita un principio costituzionale di primaria importanza e riaffermiamo il nostro impegno per la libertà religiosa di tutti, compresi quei musulmani che soffrono delle discriminazioni e della xenofobia alimentati dalla violenza dell’islamismo radicale di cui anch’essi sono vittime".
    Nelle scorse settimane la Corte Costituzionale ha "bocciato" alcuni articoli di un'analoga legge detta "anti-moschee" approvata dalla regione Lombardia, riconoscendo così la fondatezza delle ragioni contenute nell’istanza impugnativa che, avvalendosi della consulenza dell’avv. Alberto Fossati, la FCEI aveva prontamente promosso.

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Storia e cultura

Citizen Stefanini

Il più grande collezionista di arte e di beni culturali in Svizzera è un misterioso signore di nome Bruno Stefanini. Possiede innumerevoli case e palazzi. E persino quattro castelli. Vive e viene accudito nell’edificio che fu la storica sede del Coopi di Winthertur. Il padre di Stefanini, un militante socialista e antifascista, aveva gestito la struttura a partire dagli anni Trenta, in un’epoca di dura opposizione al regime mussoliniano che porterà alle leggi razziali, alla guerra e alla catastrofe.
    Tutt’altra storia quella di Bruno Stefanini. Oggi i confini delle sue leggendarie ricchezze sono avvolti in un alone di riservatezza estrema. Su di lui lo storico Miguel Garcia ha pubblicato presso la Neue Zürcher Zeitung un volume a metà  strada tra storia e “pathos del nascosto”.
    Il giornalista della Rtsi, Raniero Fratini, ha intervistato lo studioso. Ne è emerso il ritratto di un uomo enigmatico.

Vai all’intervista con Miguel Garcia, autore della ricerca su Bruno Stefanini su Rete2 http://bit.ly/1RK6muM
   
    
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LETTERA DA TUNISI

Finzi: “Il nostro Corriere
di Tunisi compie 60 anni!”

Qui di seguito l’editoriale inviatoci dalla Direttrice in
vista delle manifestazioni per l’importante anniversario.

I nostri editoriali sembrano ormai essere una somma di notizie necrologiche che addizionano dall'Europa, all'Africa ed all'Asia, morti a seguito di attentati terroristici! Ben Gherdane, Bruxelles, Ankara, Mossul, Lahore, senza  citare tutte le azioni terroristiche che non fanno notizia in varie parti del mondo, continuano a seminare morte, terrore, alimentando odio, disperazione, malavita.
    C’è un'internazionale del crimine che si veste  col nero  delle sue bandiere, ingannando migliaia di giovani  che si arruolano nelle loro file pensando così di risarcire la loro storia, se stessi, il mondo! Noi che ci stiamo preparando a festeggiare i sessant'anni della nascita del nostro giornale, nascita che è anche quella della Tunisia indipendente, vorremmo ribadire in questa ricorrenza, la necessità che l'informazione non contribuisca, in modo insensato e pericoloso, a mettere  il fuoco nel pagliaio e far divampare questo "scontro di civiltà" così caro ai guerrafondai.
    La stampa, in effetti, che condiziona così tanto l'opinione pubblica, dovrebbe riflettere con più attenzione alle conseguenze in chiave populistica dei suoi messaggi e prima di tutto interrogarsi su "chi  profitta del terrore?", così come un'informazione più democratica dovrebbe più equamente distribuire le sue notizie. Esaltare una notizia a scapito di un'altra, la cui importanza è di fatto simile, crea irrimediabilmente un'opinione errata che condiziona, purtroppo, chi le notizie le legge, le ascolta, le vede.
    Inutile, in effetti, che alcune voci politiche o/e intellettuali spieghino che il terrore colpisce tutti e ovunque, se poi la stampa mette in rilievo solo alcuni luoghi, alcune religioni, alcuni popoli. L'esempio dell'attentato di Lahore è in questo senso significativo poiché questo, accaduto nel giorno della Pasqua cristiana, è stato percepito come attacco alla cristianità mentre poco si è detto dell'attentato di Mossul, a pochi giorni di distanza, in uno stadio dove giovani adolescenti hanno perso la vita a causa di un kamikaze si è fatto saltare in aria.
    L'internazionale nera del crimine vuole proprio spingerci a credere che è in atto una guerra di civiltà laddove è in atto una guerra di potenza che si veste con i colori della religione ma che di fatto ha solo i colori della morte facendo dell'instabilità politica ed economica il concime ideale per crescere indisturbata!
    Non a caso in una delle manifestazioni del sessantesimo avremo il piacere di ascoltare ed interrogare Maurizio Molinari, direttore del giornale italiano "La Stampa" sul ruolo e responsabilità dei media nella costruzione di un'opinione pubblica. Ringrazio a nome del giornale tutti coloro che ci hanno aiutato a presentare un programma che si annuncia di grande interesse e che si svolgerà dal 20 al 22 aprile. Ringrazio anche tutti i partecipanti che ci faranno l'onore di animare queste tre giornate dai ricercatori ai  politici tunisini ed italiani che hanno coralmente aderito alle nostre iniziative.
Senza la partecipazione delle nostre istituzioni di riferimento questa ricorrenza del sessantesimo anno di vita del Corriere di Tunisi non avrebbe potuto proporre un programma così ricco e diversificato. Un particolare ringraziamento va all'Ambasciata d'Italia, all'Istituto Italiano di Cultura senza escludere il Comites, la Dante Alighieri, la CTICI. Una menzione particolare a Enzo Amendola, all'amico Marco Fedi e a Francesco Giacobbe la cui presenza ai nostri incontri darà a questi una qualità e un'importanza altrimenti impossibile da raggiungere.
    Ringrazio anche il ministro degli Affari sociali tunisino, Mahmoud Ben Romdhane di aver accettato di partecipare con noi alla tavola rotonda sull'annoso problema del futuro delle piccole e medie imprese in Tunisia con particolare riferimento alle imprese italiane che spero interesserà il mondo imprenditoriale (e non solo) tunisino ed italiano, così come la presenza al nostro tavolo di un costituente tunisino, Fadhel Moussa ci permetterà di meglio capire se il processo di democratizzazione in atto dopo la rivoluzione ha trovato reale riscontro nel rimodellare lo Stato tunisino o se si è arenato negli scogli farraginosi degli interessi di parte.
    Il 20 aprile presenteremo inoltre il nostro libro "Storie e testimonianze politiche degli italiani di Tunisia", frutto di un lavoro collettivo di studiosi e accademici italiani e tunisini.
    Il tema generale delle nostre giornate sarà improntato alla politica: politica e storia, politica e testimonianze, politica ed equilibrio mediterraneo, politica ed imprenditoria. Questo poiché riteniamo che capire le nostre impostazioni politiche nel passato come nel presente sia condizione necessaria per pensare il nostro futuro.
    Sperando vedervi numerosi a tutte le manifestazioni del sessantesimo del giornale alle quali tutti i nostri lettori sono invitati a partecipare, auguro al nostro/vostro giornale di poter continuare ad essere quella voce italiana del sud del mediterraneo nel futuro!

Silvia Finzi, Il Corriere di Tunisi
   
A tutti gli amici e colleghi di Tunisi i più fervidi auguri! - La red dell’ADL
    
        
LETTERA DA UN
COOPERATORE FRIULANO

Il mio voto, il mio SÌ

Anche se sono solo osservazioni personali, non formulate ex cathedra, credo che come cooperatore non possa astenermi dal prendere posizione, ed a maggior ragione non posso astenermi dal votare domenica. Perché democrazia è partecipazione: votare (SI) ne è una manifestazione logica

Le cooperative sono una forma di democrazia economica fondamentale. La mancanza di partecipazione (e di voto) le riduce a fenomeni ambigui, con taluni risultati negativi che abbiamo anche recentemente potuto toccare con mano. Senza democrazia (e senza voto) non si assicura l'intergenerazionalità ed il ricambio dei gruppi dirigenti; senza democrazia (e senza voto) non ci si confronta, non si elabora, non si esaminano i risultati, non si correggono errori e non si intraprendono nuove strade per il futuro. Non è un caso che, nella cooperazione come nelle forme di democrazia diretta autogestionaria, anche gli anarchici - che hanno un'idea nobile e motivata di astensione come negazione dello Stato - votino e talvolta si candidino.
    Ed inoltre c'è il senso di responsabilità. Se qualcuno, in una cooperativa, invitasse i lavoratori a non diventare soci, a non partecipare, a non esprimersi (anche votando), tradirebbe la caratteristica fondamentale dell'impresa cooperativa: la democrazia. Trasformando i lavoratori-imprenditori associati in subalterni-sfruttati. Similmente, nella società e nelle istituzioni, il pubblico funzionario non può tradire il suo mandato di operare per l'interesse comune, come fa quando invita ad astenersi (ed opera per boicottare fattivamente una votazione). In buona sostanza, il pubblico funzionario che inviti all'astensione ed operi per farla prevalere tradisce la fiducia delle istituzioni democratiche, diventando qualcos'altro. E' una forma di tradimento.
    Domenica si vota, in uno dei pochi momenti di democrazia diretta permessi dall'ordinamento costituzionale italiano. E si vota su una questione essenziale: se è lecito o no impedire di perforare il territorio nazionale, ed in particolare le sue coste, per estrarne poco petrolio e metano. A rischio, se si continuasse, di inquinare mari chiusi (l'Adriatico e lo Ionio, ma pure il Tirreno) all'interno di un altro mare praticamente sigillato (il Mediterraneo), senza possibilità di ricambio sufficiente a garantire la continuazione della vita biologica in caso di inquinamento. A fronte di tecnologie energetiche ormai sviluppate nei campi del solare, dell'eolico, delle biomasse, del risparmio energetico. E contrastando gli interessi di economia fondamentali, come quella della pesca, dell'agricoltura e del turismo.
    Non andare a votare significa tradire gli interessi delle future generazioni, oltre che i nostri. E tradire la democrazia: quella cosa che noi ci impegniamo ogni giorno, come cooperatrici e cooperatori, a far funzionare. Per questo motivo, domenica andrò a votare ed invito ad andare a votare. Ovviamente, SI.

Gian Luigi Bettoli, e-mail
        
    
LETTERA DA MONACO

Il mio voto, la mia scheda bianca

Normalmente sono uno che il voto lo esprime, in campo
politico da sempre in quello referendario anche, non oggi però.

Ormai è stato detto di tutto e di più (e questo è positivo) sia a favore del no che del Sì, cosi come l’uso del referendum. Qualsiasi cosa direi è stata già detta, molte risposte tra l’altro non rispondono esattamente al quesito posto ma ad un’idea che si vuol far emergere. Normalmente sono uno che il voto lo esprime, in campo politico da sempre in quello referendario anche, non oggi però. Sono deluso dal mio governo come dai presidenti di regione (buona parte del PD) per non essere stati in grado di trovare loro una soluzione al problema. Altra cosa sarebbe stata la mia risposta se mi si fosse chiesto su quale tipo di energia si dovrebbe puntare per il futuro. Purtroppo non è il caso in questione perché su quello l’Italia nella sua stragrande maggioranza ha già detto di si (inclusi coloro che voteranno no o si asterranno) anche senza referendum tanto era nei desideri di tutti e lo dimostra il fatto che l’Italia ha anticipato raggiungendo con 4 anni di anticipo l’obiettivo posto dalla EU. Come potrete immaginare il vs voto che sia stato un Si o un No verrà interpretato non secondo la vs logica ma secondo quella di coloro che ci governano e dei loro oppositori, quindi non illudetevi che verrà visto secondo la vs ottica, cosi come io non mi illuderò se esprimendo il mio voto (scheda bianca) pensassi che verrà interpretato nella giusta maniera.

G.F.T., Monaco di Baviera
            
        
L'AVVENIRE DEI LAVORATORI
EDITRICE SOCIALISTA FONDATA NEL 1897
Casella postale 8965 - CH 8036 Zurigo

L'Avvenire dei lavoratori è parte della Società Cooperativa Italiana Zurigo, storico istituto che opera in emigrazione senza fini di lucro e che nel triennio 1941-1944 fu sede del "Centro estero socialista". Fondato nel 1897 dalla federazione estera del Partito Socialista Italiano e dall'Unione Sindacale Svizzera come organo di stampa per le nascenti organizzazioni operaie all'estero, L'ADL ha preso parte attiva al movimento pacifista durante la Prima guerra mondiale; durante il ventennio fascista ha ospitato in co-edizione l'Avanti! garantendo la stampa e la distribuzione dei materiali elaborati dal Centro estero socialista in opposizione alla dittatura e a sostegno della Resistenza. Nel secondo Dopoguerra L'ADL ha iniziato una nuova, lunga battaglia per l'integrazione dei migranti, contro la xenofobia e per la dignità della persona umana. Dal 1996, in controtendenza rispetto all'eclissi della sinistra italiana, siamo impegnati a dare il nostro contributo alla salvaguardia di un patrimonio ideale che appartiene a tutti.
  
     



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