Cosa è una comunità di sicurezza e perché è un concetto importante per il XXI secolo, il secolo delle autonomie personali, sociali, territoriali
Prato, 16 marzo 2024
di Mauro Vaiani Ph.D.*
Karl Wolfgang Deutsch (1912-1992), un pensatore anticentralista e antiautoritario che in diversi - a partire da chi scrive - consideriamo un maestro di scienza politica e geopolitica, fu il primo ad intuire l’esistenza, nella modernità globalizzata, di un graduale processo di “mobilitazione sociale” (social mobilization), in un mondo in cui crescenti porzioni di popolazione stavano diventando meno povere, più longeve, meno ignoranti, talvolta persino più informate.
Una delle ricadute positive di questo cambiamento sociale era vedere intere regioni del mondo trasformarsi in “comunità di sicurezza” (security community). Molti popoli erano arrivati a togliere ai loro capi l’autorità di condurli in guerra, se non in assoluto, almeno contro un certo numero di vicini geopolitici (non necessariamente alleati o amati). Se un gruppo di popoli arriva a questa consapevolezza, fra di essi si forma una comunità di sicurezza. L’idea stessa di nuovi conflitti all’interno della stessa diventa felicemente impensabile.
Tali comunità di sicurezza possono essere anche poco o per nulla istituzionalizzate, ma non per questo sono meno reali, anche in questa modernità in cui gli arsenali militari sono pieni di armi così terrificanti da poter distruggere il pianeta dozzine di volte.
L’idea moderna di comunità di sicurezza era semplice, radicale, promettente, feconda di conseguenze, ma non era una novità assoluta nella storia: più si scava nella profondità della storia degli homo sapiens, più si comprende, come ha insegnato l’antropologo newyorkese R. Brian Ferguson, che la disponibilità di una collettività a fare la guerra a un’altra non è affatto “naturale”. E’ una costruzione sociale che, come tutte le altre, è sempre mutevole, se non precaria, comunque ben delimitata nel tempo e nello spazio.
Sembrerà paradossale, visto che negli anni Venti del XXI secolo in cui stiamo scrivendo siamo bombardati da potenti conformismi bellicisti, ma alcuni si spingono a sostenere che, nei 50.000 anni di storia degli esseri umani che condividono quella che è chiamata modernità comportamentale della nostra specie (behavioral modernity), la guerra, lungi dall’essere una condizione a cui saremmo in qualche modo permanentemente condannati, non rappresenta affatto una presenza costante.
La guerra è piuttosto una invenzione e anche piuttosto relativamente recente. Ferguson sostiene che la guerra sia stata concepita non più di 10.000 anni fa (ironia della storia: ciò sarebbe avvenuto nel nord di quello che oggi è l’Iraq). Anche dopo l’invenzione della guerra, tuttavia, essa è rimasta una costruzione politica contingente, sempre limitata dalle risorse e dalle tecnologie disponibili ai capi delle società politiche umane.
E’ con l’avvento dello stato moderno e con la rivoluzione industriale, che la guerra diventa qualcosa di ben peggiore. Per questo è necessario restare sempre critici di coloro che raccontano le guerre scatenate dalle società industriali come se fossero una “naturale” continuazione delle ostilità pre-moderne. Solo con la produzione in serie di armi, la coscrizione obbligatoria, le navi a vapore, i treni, il telegrafo, la guerra è diventata quello che è oggi. Il cambiamento di scala è talmente grande da rendere la guerra moderna un evento qualitativamente e non solo quantitativamente diverso da quello che era stata.
In un mondo che nel frattempo era stato completamente colonizzato dalla capacità bellica degli stati occidentali industrializzati, dopo un paio di secoli di conflitti moderni, culminati nelle due terrificanti guerre mondiali e nella costruzione delle armi di distruzione di massa (atomiche, ma anche batteriologiche e chimiche), si sono create le condizioni perché le persone comuni potessero far presente alle elite dominanti di averne abbastanza. Non a caso, su questo sfondo, le uniche lotte politiche e geopolitiche che hanno avuto veramente uno spontaneo sostegno popolare, e che hanno conseguito qualche successo duraturo, sono state quelle nonviolente.
La storia personale di Karl Deutsch non gli aveva consentito di essere un idealista: era un boemo di madrelingua tedesca, che si era rifugiato negli Stati Uniti già dal 1938, per sfuggire all’avvento del nazismo. Nel pieno della guerra fredda, rischiando di essere perseguitato dal complesso militare-industriale americano, ebbe il coraggio di giudicare i due blocchi contrapposti del suo tempo, quello americano e quello sovietico, come impegnati in una sinistra gara a chi esportava più violenza e più ignoranza nel mondo.
Fu sempre realista, anche se ottimista. Non si sarebbe quindi meravigliato della scarsa fortuna che il concetto di comunità di sicurezza ha avuto prima nella comunità accademica e poi più generalmente nelle elite al potere.
Forse sarebbe rimasto amareggiato, ma non del tutto sorpreso, dal fatto che, proprio nel mondo post-1989, dopo la caduta dei partiti-stato comunisti (ma anche di molte autocrazie sedicenti anti-comuniste), lo scioglimento del Patto di Varsavia e la dissoluzione – relativamente pacifica - dell’Unione Sovietica, ciò che era stato reso possibile per gran parte dell’umanità, cioè un rifiuto della guerra sempre più generalizzato, venisse così attivamente contrastato.
Proprio dopo il glorioso 1989, l’idea di comunità di sicurezza fra vicini geopolitici e in prospettiva in aree del pianeta sempre più ampie, è stata ferocemente combattuta da implacabili nemici: le elite al potere nei grandi stati centralisti e autoritari, a partire dal più potente di tutti, gli Stati Uniti d’America.
La convinzione sempre più universale che la guerra fra stati, e fra i molti popoli, territori e regioni che vivono all’interno degli stati contemporanei, fosse ormai impensabile, è stata minata con ogni mezzo propagandistico possibile.
Forse l’intero ciclo storico che stiamo vivendo, a cavallo fra il XX e il XXI secolo, dovrà essere riletto alla luce di una amara consapevolezza: se la maggioranza degli esseri umani, ormai interconnessa dalla globalizzazione, fosse stata lasciata davvero libera di considerare la guerra impensabile, nessuno degli stati contemporanei sarebbe potuto sopravvivere com’era.
La concentrazione di potere nelle mani di pochi, all’interno di ciascuna delle potenze, sarebbe stata intollerabile nel medio-lungo termine e quindi messa in discussione. Questo era stato intuito molto chiaramente, fra gli altri, da una personalità come Václav Havel (1936-2011), nel suo fecondo e disseminativo scritto, “Il potere dei senza potere” del 1978.
Si doveva togliere dalle menti e dai cuori l’idea che la guerra fosse ormai impensabile. Uno sforzo che c’è stato, purtroppo, che è ancora in corso, che sta cercando di cancellare l’idea stessa che siano invece più possibili comunità di sicurezza sempre più estese.
Per esempio non si è sciolta la NATO, che pure era diventata inutile dopo lo scioglimento del Patto di Varsavia e la disintegrazione dell’Unione Sovietica. Al contrario, si è continuato a finanziarla, potenziarla, allargarla. Per convincere le persone comuni a continuare a tenere al potere le elite atlantiste, si sono letteralmente cercati sempre nuovi nemici, provocandoli e, dopo le inevitabili reazioni, demonizzandoli. Il gigantesco apparato militare-industriale degli Stati Uniti è stato, ovviamente date le sue dimensioni, il principale attore in questo gioco per giustificare la propria sopravvivenza, ma le elite al potere in tante altre potenze – grandi, medie e persino piccole – hanno partecipato con entusiasmo.
Senza inventare sempre nuove minacce esterne, molte delle elite dominanti tanti stati del pianeta semplicemente non sarebbero rimaste al potere dopo il 1989.
La religione civile dei diritti umani, le aspirazioni democratiche, la consapevolezza che la guerra è diventata talmente distruttiva da dover essere esclusa per sempre dalle relazioni umane inter-territoriali, sono idee davvero contagiose. Ancora più virulenta sarebbe – sarà – la presa di coscienza globale che i luoghi dove gli esseri umani vivono meglio sono quelli in cui si è scommesso sulle autonomie personali, sociali, territoriali.
La globalizzazione, che pure ha prodotto molti guasti e ha molti lati oscuri, ha almeno questo di positivo: si potrà rallentare con la paura, ma non si potrà fermare una vera e propria pandemia di decentralismo.
Gli stati centralisti e autoritari stanno combattendo decine di sanguinosi conflitti, mentre stiamo scrivendo. I media, controllati dalle elite al potere, ci sommergono con incessanti campagne di paura e terrore. Nell’arena globale si sentono quasi solamente le urla dei tifosi dell’una o dell’altra parte combattente (si vedono ovunque sé-dicenti comunisti o liberisti, sovranisti ed europeisti, pro-Palestinesi e pro-Israele, russofobi e russofili, che credono di sostenere una qualche nobile causa, mentre sono solo pedine nelle mani di cinici capi politici che di queste polarizzazioni al vetriolo hanno fatto un lucroso mestiere).
Tutto questo, però, non cancella la semplice realtà che la vita umana è degna di essere vissuta solo laddove la guerra non c’è da tempo e il suo ritorno è considerato impensabile.
Potenti signori della guerra reggono la maggior parte degli stati (e delle organizzazioni terroristiche dagli stati stessi finanziate), ma è improbabile che il tempo sia dalla loro parte. Centralismo e autoritarismo sono insostenibili nel medio-lungo termine per una umanità globalizzata, interconnessa, socialmente mobilitata.
Se le persone umane fossero solo individui, esse potrebbero essere tenute in uno stato di asservimento anche tutta la loro breve vita terrena, ma così non è. La maggior parte degli esseri umani non sono – non ancora, almeno – monadi sradicate, atomi privi di legami, creature spogliate di identità culturale e appartenenza comunitaria. Il pianeta è popolato piuttosto da decine di migliaia di comunità, spesso ancora piuttosto coese: città, territori, popoli.
Se fossero parte di una comunità di sicurezza, le realtà locali potrebbero prendersi poteri e risorse che oggi sono concentrate nelle capitali degli stati, migliorando le proprie prospettive e quelle delle generazioni future. Scommettiamo che è proprio quello che accadrà.
Il XXI secolo sarà il secolo delle autonomie, che per vivere e prosperare pretenderanno di far parte di comunità di sicurezza, che renderanno progressivamente sempre meno pericolosi e infine inutili i grandi stati centralisti e autoritari.
* Ph.D. in Geopolitica – studioso e attivista – autore di “Cosmonauta Francesco” (2022)
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