Per una serie di circostanze personali e familiari mi sono trovato a riflettere sul fatto che per quarant'anni ho sostenuto, spesso esponendomi a rischi superiori alle mie forze e quindi anche a monumentali fallimenti, le autonomie personali, sociali, territoriali in questa Repubblica, e oltre.
Mi è tornato in mente che attorno ai vent'anni, in un convegno di giovani cristiani attratti dall'impegno sociale e politico, ascoltai con entusiasmo Silvia Costa che ci spiegò il problema della "spesa storica". La dottoressa Costa era una giovane dirigente della Democrazia Cristiana (riuscì a entrare in parlamento solo nel 1985, ma forse questo mio ricordo è precedente).
La "spesa storica" era già chiaramente ingiusta allora, quarant'anni fa, anche agli occhi di coloro che non avevano mai riflettuto sui meccanismi del colonialismo interno e in particolare sulle conseguenze che questo aveva avuto per il Meridione e per altri territori periferici rispetto allo sviluppo della cosiddetta "modernità" (da toscano non posso non ricordare l'abbandono sistematico dell'Appennino).
Con quel sistema di finanza locale, più fondi si sono dati ai territori che erano già più popolosi, più
sviluppati, con una rete storicamente più forte di servizi pubblici
locali. Più risorse a chi aveva già di più, meno risorse a chi aveva
meno, insomma, condannando a restare indietro le aree meno popolate,
meno sviluppate, meno dotate d'infrastrutture e servizi.
Gli investimenti e i trasferimenti dalle zone privilegiate a quelle marginali c'erano stati e ce ne sarebbero stati anche successivamente, ma era chiaro, già allora, che qualche intervento straordinario non avrebbe mai potuto correggere la distorsione dei meccanismi ordinari.
Un sistema centralizzato fa crescere qualche capitale (Milano e Roma), qualche distretto industriale meglio posizionato (nel triangolo Torino-Genova-Milano o in qualche provincia ben collegata con esso o con l'Europa), persino qualche area agroindustriale (l'Emilia), ma inevitabilmente condanna allo spopolamento e al declino tutto il resto.
Sentire in questi giorni che ancora si discute, dopo quarant'anni, di come superare la "spesa storica", produce l'effetto di una frustata.
Evidentemente, quarant'anni di autonomismo sono stati sconfitti, ma - spes contra spem - forse non sono trascorsi invano.
Anche se non erano chiari a tutti i pericoli del centralismo, principi autonomisti erano vivi nelle comunità politiche più forti, quelle che avevano fondato la nuova Repubblica italiana: i cristiano-sociali, i cattolici liberali, i socialisti, il mondo liberalsocialista, i riformisti (che già allora prevalevano nelle strutture del Partito Comunista nelle regioni rosse).
Con la crisi della partitocrazia, poi, assistemmo alla nascita di nuovi movimenti civici, le liste "Federalismo", le liste verdi, le prime leghe, le reti per la democrazia dal basso. Realtà che erano spesso figlie, o almeno sorelle, di una concezione decentralista della vista economica e sociale.
Grazie alla prevalenza fra la gente di convinzioni autonomiste, il cambiamento è parso per decenni a portata di mano: la Repubblica delle Autonomie, da vago ideale costituzionale coltivato in reazione al centralismo autoritario fascista (in parte realizzato solo nelle sei autonomie speciali di Aosta, Bolzano, Trento, Friuli-Venezia Giulia, Sicilia, Sardegna), sarebbe senz'altro diventata realtà anche nelle quindici regioni a statuto ordinario, nelle province, nelle grandi città, nei piccoli comuni.
A ben guardare, ancora oggi, dopo decenni di fallimenti autonomisti e di riforme decentraliste mancate, sono pochi i politici che si dichiarano apertamente centralisti, perché pesa ancora oggi nella vita pubblica il grande favore popolare per le autonomie locali.
Persino alla sterile e talvolta surreale discussione ventennale sulla cosiddetta "autonomia differenziata" prevista dalla riforma costituzionale del 2001, hanno partecipato tutti i governi e tutte le regioni (salvo, credo, gli Abruzzi e il Molise, come si vede nella cartina pubblicata a margine di questo scritto, tratta da Il Messaggero).
Poi cosa è successo? Provo a elencare alcune delle meteoriti che ci hanno colpito, trovandoci completamente impreparati. Ciascuna di esse capace di provocare l'estinzione di ogni mentalità decentralista.
Non ho alcuna pretesa di essere efficace, né esaustivo, né di porre queste gigantesche questioni in un ordine appropriato di rilevanza o cronologia.
Per cominciare, le forze livellatrici e distruttrici della globalizzazione hanno sconvolto i territori e le economie locali. Sono forze ecocide e genocide (Pasolini l'aveva ben compreso). Non c'era alcuna speranza di frenarle perseguendo la propria piccola autonomia (l'illusione dei cialtroni il cui motto era "padroni a casa nostra"). Tuttavia resta sotto gli occhi di tutti che coloro che hanno un po' di autonomia, in Italia e nelle vicinanze, in Trentino, nel Sudtirolo, nei cantoni svizzeri, negli stati austriaci, a Malta, in Slovenia e in Croazia, persino a San Marino, hanno resistito meglio e i loro territori sono autentici esempi positivi per la costruzione di ciò di cui abbiamo, credo, bisogno: una internazionale decentralista (decentralism international), un movimento globale per l'autogoverno di tutti dappertutto, contro tutti gli stati, contro tutti i colonialismi, vecchi e nuovi.
Secondariamente, i trattati dell'Unione Europea hanno concentrato a Bruxelles, spesso ben al di là delle intenzioni dei contraenti, un potere ampio e penetrante nella carne viva dei popoli e dei territori europei. Un potere che è tecnocratico senza essere sovrano, cioè - per seguire la provocazione del prof. Carlo Galli - capace di opprimere senza offrire in cambio alcuna protezione. Tuttavia l'Unione Europea è ancora uno spazio geopolitico dove reggono forti garanzie giuridiche a tutela dei diritti degli individui e delle comunità. Il Parlamento europeo non dovrebbe più essere visto, tanto meno da noi autonomisti, come un cimitero di elefanti, ma un'arena in cui una nuova generazione di leader civici, ambientalisti, autonomisti deve entrare e portare avanti la lotta per le autonomie personali, sociali, territoriali, nel nome dei nostri antichi ma sempre giovani principi di sussidiarietà.
Inoltre, dal 1981 la Repubblica italiana ha cominciato a scivolare pericolosamente nella privatizzazione del debito pubblico, lasciato nelle grinfie di una finanza globale speculatrice, cieca e folle. Una deriva che ha portato (non solo l'Italia) nel disastro dell'austerità. Si noti bene: non solo l'Euro, ma già la Lira aveva smesso di servire come moneta di scambio e istituzione politica di redistribuzione. Il tema è gigantesco e largamente incompreso, non solo non nel nostro mondo autonomista, come ben si comprende confrontandosi con le ricerche, fra gli altri, del prof. Luca Fantacci. Tuttavia noi siamo gli unici che possiamo affrontarlo di petto istituendo con coraggio, in ciascuno dei nostri territori, le monete locali che servono.
Queste tre gigantesche questioni, va da sé, sono ancora più difficili da affrontare nel quadro del generale declino della libertà d'informazione e del pluralismo politici. In questo nostro stato italiano, per la nuova generazione di leader civici, ambientalisti, autonomisti che, attraverso Autonomie e Ambiente, stiamo cercando di far crescere, farsi largo nella giungla delle leggi elettorali, bucare il tetto di vetro del conformismo mediatico, vincere la crescente diserzione delle urne, è una impresa sovrumana. Tuttavia l'impegno civile nonviolento dal basso, la partecipazione diretta alle elezioni, l'assunzione di responsabilità amministrative, la lotta per il ripristino di regole democratiche elementari, la resistenza contro tutte le forme di presidenzialismo (elezione mediatica dell' "uomo solo" al comando), sono l'unica strada che possiamo percorrere. Strada che peraltro il nostro mondo civico, ambientalista, autonomista non deve percorrere in solitudine, ma insieme a tante persone che, indipendentemente dalla cultura politica in cui si sono formate, abbiano comunque una mentalità decentralista.
Ho avuto il piacere, proprio in queste ultime ore, di leggere una riflessione in diversi punti convergente con la mia, quella dell'avvocato Luigi Basso, sulla quarantennale sterilità degli autonomisti. Voglio credere che il mondo autonomista si stia liberando dai pesi morti che ci hanno impedito di vedere, giudicare, agire con maggiore costrutto, qui nello stato italiano: leghismo, nordismo, sudismo, autonomismi veteronazionalisti (non di rado alfieri della "indipendenza" di "nazioni" attualmente prive di popolo), avventurieri, ciarlatani, narcisi, chiacchieroni.
Il nostro cammino è e resterà lungo, tortuoso, difficile. Tuttavia abbiamo radici in parole vive, come quelle della Carta di Chivasso. Parole più necessarie che mai in questo mondo dominato da concentrazioni di potere capaci di condurre il mondo sull'orlo dell'autodistruzione.
Non siamo molti, né molto capaci, né più molto giovani. Tuttavia stiamo difendendo l'unica forma di socialità umana che rende pienamente libera e degna la vita umana: la comunità locale, con la sua economia locale, con le sue tradizioni e libertà, con le proprie originali istituzioni di autogoverno.
Quando nel 2043 festeggeremo il centenario della Carta di Chivasso, avremo consegnato alle generazioni future il nostro importante messaggio.
Se un giorno tornasse davvero un Cosmonauta Francesco sulla Terra, alla fine del XXI secolo, forse non troverà tutto ciò che è stato immaginato, ma almeno ci sarà ancora vita, diversità, libertà.
Mauro Vaiani
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