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venerdì 25 gennaio 2019

Il federalismo come unico futuro sostenibile



Oggi venerdì 25 gennaio 2019 al Teatro Duse di Via Crema a Roma, vicino Villa Fiorelli, si tiene un incontro su un tema cruciale: "Il futuro del federalismo". Relatore principale è il prof. Paolo Armellini (La Sapienza di Roma). Intervengono però anche studiosi e attivisti per l'autogoverno di diversi territori d'Europa.

L'evento sarà reso disponibile nel preziosissimo archivio di Radio Radicale. L'incontro è stato promosso dalla associazione culturale Movimento Catilinario, una esperienza molto originale e molto promettente, che si muove per una rinascita dal basso del civismo nella grande e complessa realtà della città di Roma.

Come studioso di autogoverno, insieme a molti altri di un dialogo per l'autogoverno che conduca movimenti territoriali e locali d'Italia e d'Europa verso una nuova stagione di riforme decentraliste, mi sono sentito di portare un mio piccolo contributo.

Partirei da una affermazione semplice e radicale: il federalismo (nel senso più lato che si può attribuire a questa corrente estremamente composita di pensiero politico della modernità) non solo ha un futuro, ma è l'unico futuro sostenibile per l'umanità.

Forse, più ancora che di federalismo, dovremmo parlare di decentralismo, per essere sicuri di ricomprendere tutte le culture, gli ideali, le speranze, di coloro che, nei modi più diversi, nei luoghi più diversi, vogliono frenare e se possibile smontare le grandi concentrazioni di potere della modernità. Non solo quelle degli stati, ma anche delle grandi organizzazioni internazionali, pubbliche e private.

Nella modernità queste realtà non solo sono altissime piramidi i cui vertici sono inaccessibili alla persona umana, ma anche grandi macchine goffe, che si muovono praticamente alla cieca, d'inerzia, schiacciando tutto ciò che trovano sul proprio cammino. Ci sono, certo, delle elite che vogliono godersi potere e ricchezze, in cima a queste grandi piramidi semoventi. Elite a cui ovviamente lo status quo assicura privilegi, ma anche esse, in realtà, non hanno un pieno controllo.

I grandi stati e le altre grandi macchine della modernità non hanno più "un signore", come direbbe Romano Guardini (Das Ende der Neuzeit, 1965). Hanno acquisito una sorta di elementare e brutale forza propria, che sfugge al controllo umano.

Una delle più grandi illusioni che tocca a noi decentralisti confutare, è che, dando l'assalto al cielo di un grande potere statale o internazionale, con un nuovo movimento e con una nuova generazione di leader, che vadano a sostituirsi a quelli di prima, si possa davvero cambiare qualcosa. E' davanti agli occhi di tutti, è davanti al naso di ciascuno direbbe George Orwell, eppure comprendere questa verità continua a richiedere uno sforzo erculeo.

Si può diventare presidenti del più armato stato del mondo, chiamarsi Bush, Obama, o Trump, ma non si riesce a incidere in alcun modo sul grande complesso militare-industriale USA; si può diventare il più alto dirigente del Partito Comunista Cinese e non riuscire a porre un freno alle distruzioni sociali e ambientali; si può diventare presidente della Banca Centrale Europea e non si potrebbe in alcun modo, anche se lo si volesse, fermare l'estrazione continua di risorse dai poveri e dalle periferie, verso i ricchi e le capitali, estrazione che sta avvenendo sistematicamente attraverso la gestione "di mercato" del debito pubblico nominato in Euro.

Questi potrebbero sembrare esempi estremi, ma chiunque sia veramente dentro la vita quotidiana di un grande stato o di un'altra delle grandi macchine della modernità, arrivando magari anche ad esercitarvi un qualche ruolo decisionale, capisce, se è dotato di un minimo di senso critico, che nulla può essere veramente riformato dal centro e dal vertice. Perché l'alto è sempre un altrove, dal quale non si vede e quindi non si sa cosa veramente la macchina sta calpestando nei suoi, magari lenti, ma inesorabili movimenti.

Si può essere certo dei leader coraggiosi, che hanno sposato qualche idea veramente radicale, di impronta più sociale o più liberale, più ambientalista o più sviluppista. Purtroppo però, anche nei casi migliori, quando i vertici di un grande stato o di una grande organizzazione si risolvono a voler migliorare qualcosa, essi semplicemente non vedono la realtà che sta in basso, non riescono mai a valutare l'inerzia della macchina, ben difficilmente riescono a incrinare la dittatura dello status quo.

Non c'è speranza di riforma delle grandi piramidi oppressive. Esse vanno solo smontate. Male che vada, esse saranno piramidi più piccole, quindi meno pericolose.

C'è una grande tradizione di studi sui limiti intrinseci del centralismo nella modernità, a cui chi scrive è molto legato, che ha per capofila Karl Deutsch, le cui riflessioni non possiamo certo riportare qui (ma qualcuno più curioso può sbirciare nel nostro studio di dottorato Disintegration as Hope, Mauro Vaiani, 2013). Tuttavia vorremmo accennare ad almeno una delle più feconde intuizioni di Deutsch: fra i tanti problemi del centralismo, uno dei più grandi è che esso è incompatibile con la mobilitazione sociale della persona umana nel mondo contemporaneo.

Non è semplicemente possibile che una persona del nostro tempo, dopo essere stata inclusa nella modernità, minimamente istruita, messa a lavorare nella complessità economica e sociale di oggi, connessa a internet, possa limitarsi a essere un cittadino che non conta nulla, se non una volta ogni tanto quando è chiamata a votare, più o meno democraticamente, per un leader mediatico. La persona umana del nostro tempo vuole più controllo e tale controllo non può prescindere dall'avere un ruolo in una comunità umana in cui il singolo senta di poter fare la differenza. Questo non riguarda solo comunità periferiche che si sentono marginali negli attuali stati, ma riguarda proprio tutti. Per questo spinte all'autogoverno ci sono in tutto il mondo, grandi città capitali comprese.

Essere cittadino di una comunità di tre, o di trenta, o di trecento milioni di abitanti non è assolutamente la stessa cosa, per una creatura umana minimamente consapevole del nostro tempo. Per questo tutti gli stati appena un po' più grandi, sono percorsi da movimenti decentralisti, per la costruzione di nuove reti di autogoverno dal basso.

I movimenti nazionali, anti-coloniali, localisti, identitari, di difesa delle culture vernacolari, civici e ambientalisti hanno storie e dinamiche molto diverse tra di loro, ma tutti sono investiti (e continuamente trasformati) da questa novità della mobilitazione sociale, come Karl Deutsch aveva previsto sin dal suo famoso articolo del 1961, Social Mobilization and Political Development.

Cosa c'entra tutto questo con l'Italia e, in particolare, con Roma?

L'Italia è uno stato tra i più grandi ed eterogenei del mondo, con le sue decine di territori e di culture locali. Non tutti sanno che solo una ventina di stati del mondo sono più grandi dell'Italia e che alcuni di quelli più grandi sono meno eterogenei e meno complessi della nostra repubblica.

Purtroppo, nonostante la nostra vicinanza e la nostra intimità culturale con la Svizzera e con San Marino, le nostre tradizioni federaliste e confederaliste sono state sconfitte nell'ottocento dei nazionalismi e dei colonialismi. Rosmini e Cattaneo, Ferrari e Pisacane sono finiti coperti dalla polvere nelle biblioteche. Siamo stati sottomessi a uno stato centralista, che ha praticato - non dimentichiamolo - un feroce colonialismo interno e ha condotto una serie impressionante di avventure militariste all'esterno.

Solo grazie a una riflessione critica faticosamente elaborata, fra gli altri, da Gramsci, Salvemini, don Sturzo, dagli autonomisti che il 19 dicembre 1943 scrissero la carta di Chivasso, siamo arrivati, dopo decenni di disastri, alla fondazione nel 1948 di una repubblica delle autonomie.

Nella repubblica le autonomie non hanno mai smesso di vivere e di crescere, anche quando sono sembrate sommerse da ondate di centralismo e neocentralismo (italiano e anche europeo).

Fra mille tensioni e polemiche, nonostante gli errori politici e culturali compiuti da tanti (dai centralisti di ogni colore, compreso il neocentralismo del leghismo prima nordista e oggi nazionalista italianista), noi stiamo ancora camminando in quella direzione, semplicemente perché è l'unica possibile.

In estrema sintesi, i fattori più importanti, che spingono nella stessa direzione, sono due: primo, la complessità della modernità italiana ed europea e le crisi ambientali e sociali della globalizzazione non si governano dall'alto e da altrove; secondo, nessuna creatura umana, non solo qui in Italia e in Europa ma in tutto il mondo, può accettare ancora a lungo, in questo nostro tempo, di non avere voce in capitolo nel governo del proprio territorio. Sono fattori sociali, che hanno una loro forza scientificamente rilevabile. Non sono solo vaghe aspirazioni spirituali, culturali o politiche meramente sovrastrutturali. Non sono e non saranno, quindi, facilmente eludibili.

L'autogoverno è la risposta a queste due tensioni cruciali. C'è quindi, ci pare, la possibilità di essere ancora ottimisti. C'è speranza, grazie all'autogoverno, per il bene di ciascuno dei nostri quartieri e paesi, delle comunità e dei territori, delle culture e delle economie locali.

Come chiedono i decentralisti, dall'Ossola al Salento, dalla Sicilia al Trentino, si può finalmente smettere di opprimere gli Italiani e lasciare che essi si autogovernino, con maggiore libertà e maggiore responsabilità, nella pluralità dei loro territori.

In questo campo si fa molta guerra fumogena di parole (indipendenza, secessione, divisione dell'Italia, uscita dall'Europa) e di numeri (chi ci guadagna, chi ci rimette). Noi crediamo di saper tenere i piedi saldamente ancorati nella vita vera delle nostre terre, di rappresentare una politica meno cinica e più seria.

Sappiamo che viviamo in un mondo interdipendente, che abbiamo bisogno di una confederazione europea democratica e trasparente, che tutti i nostri territori hanno il dovere di autogovernarsi, per uscire dall'inquinamento e dal declino. E' una strada difficile ma responsabilizzante, e alla fine vincente per tutti, territori più ricchi e meno ricchi, più periferici e più centrali.

Roma, poi, ci sia consentito dirlo per chiudere questi appunti scritti proprio nella città eterna, non avrebbe proprio niente da perdere, se non la tristezza di migliaia di vite condannate all'inutilità, nella pesantezza, nel grigiore e fra gli sprechi di qualche ministero. Grazie a un moderno autogoverno, almeno paragonabile a quello di cui godono città come Berlino o Vienna, potrebbe solo rifiorire.

Auguri, a questo proposito, al comitato promotore del Libero Governo Cittadino di Roma, in particolare alla comunità di attivisti dell'Appio-Tuscolano, che abbiamo avuto la fortuna di conoscere meglio in questa splendida giornata.






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