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sabato 20 ottobre 2018

Lavoro di cittadinanza, questo darebbe un governo decentralista



C'è inquietudine, non solo interesse, nella gente, quando si sente parlare di reddito di cittadinanza. I poveri sono sempre di più e si rischia di accendere negli umili speranze che potrebbero andare deluse. Le classi medie impoverite non sono contrarie, ma c'è anche chi soffia sul fuoco dell'invidia sociale e della paura che si finisca per premiare "chi non si è impegnato abbastanza".
Fra i cittadini socialmente più attivi e politicamente più consapevoli, si va da chi teme una nuova ondata di malcostume assistenzialista, a chi dubita che gli attuali governanti abbiano le competenze per gestire un tale strumento, a chi non crede alla tenuta dei conti pubblici.
C'è un pizzico di speranza, ma anche molto timore.
Che fare, quindi?
Cosa farebbe un governo decentralista, sostenuto da autonomisti toscani, da Autodeterminatzione Sardegna, dal Patto per l'Autonomia del Friuli-Venezia Giulia, da Siciliani Liberi e da tanti altri movimenti decentralisti?
Secondo questo blog, noi decentralisti lotteremmo per una drastica devoluzione dell'intera materia ai territori.
Chiunque abbia vissuto in prima persona una esperienza di emancipazione dalla povertà, sa che essa parte solo con l'aiuto di chi ti è più vicino (un parente, un collega, un vicino di casa, un volontario di una parrocchia o di un centro sociale). Il primo (e in molti casi unico) interlocutore istituzionale è il comune, con i suoi servizi sociali.
Per quanto inefficiente possa essere un comune, questa istituzione non può sottrarsi, perché è ad essa, alla fine, che le leggi della Repubblica affidano il compito di occuparsi degli indigenti.
Noi decentralisti lottiamo quindi perché i comuni - ma nei comuni più grandi addirittura il quartiere, il rione, la frazione - abbiano politiche serie di emancipazione dalla povertà, orientate al riscatto sociale, all'aiuto alle persone e alle famiglie affinché si rialzino e si rendano indipendenti.
Dare un alloggio economico, o un sostegno finanziario, o altre forme di aiuto personalizzato, può e deve essere deciso al livello più basso possibile, da politici responsabili (con il supporto dei tecnici dell'assistenza sociale ma non lasciando a loro decisioni che sono eminentemente politiche).
Per questo tutte le risorse di cui si parla attualmente a livello nazionale, una decina di miliardi di Euro, dovrebbero essere lasciate interamente ai comuni.
Ai comuni dovrebbe andare una percentuale maggiore di IRPEF, con elementi di perequazione fra zone più ricche e più povere del paese.
Ai comuni, inoltre, vorremmo dare una maggiore libertà organizzativa e finanziaria nella gestione delle loro risorse, iniziando a disboscare la giungla di leggi che oggi paralizzano anche le amministrazioni più virtuose.
Facciamo una proposta se possibile ancora più radicale: tutti i sussidi di disoccupazione dovrebbero essere distribuiti e controllati dai servizi sociali dei comuni, secondo regole universali, affinché essi siano coordinati (senza sprechi e lottando contro eventuali abusi) con le altre politiche sociali di emancipazione della persona umana dallo stato di bisogno.
Ai comuni stessi, infine, lasceremmo la possibilità di chiedere qualcosa in cambio a tutti coloro che sono in difficoltà: il lavoro di cittadinanza.
A chi è in età lavorativa e non ha problemi di salute gravi, i comuni, in cambio dell'aiuto dato, potrebbero chiedere di fare, almeno due o tre mattine la settimana, un po' di lavoro socialmente utile.
Lavoro, quindi, e non reddito di cittadinanza, perché tutti possano, anche nei momenti più difficili, sentirsi partecipi e utili.
Per quanto riguarda le politiche più complesse, quelle per far incontrare offerta e domanda di lavoro, dalla formazione professionale all'organizzazione dei cosiddetti centri per l'impiego, noi devolveremmo l'intera materia alle regioni e e alle province autonome, le quali hanno la possibilità di concentrarsi su ciò che è veramente utile alla loro gente e al loro territorio.
L'unico provvedimento che, per il momento, lasceremmo a livello centrale, è quello del doveroso aumento della pensione minima. Agli anziani questo lo dobbiamo, senza se e senza ma. Per poterlo fare noi non ci sottrarremmo all'adozione di valute locali, perché gran parte di ciò di cui gli anziani hanno bisogno si trova nel loro quartiere e nel loro paesino, per cui non si dovrebbe aver paura di dare loro una integrazione al reddito in unità di conto che possano circolare solo in un ambito territoriale ristretto (si veda in proposito quanto abbiamo scritto a proposito degli studi di Stefano Sylos Labini e di Francesco Gesualdi).
A coloro che, a questo punto, ci ripetessero la stanca litania sugli "sprechi" delle regioni e degli enti locali, un cortese saluto e un invito a studiare un pochino di più. In quanto a sprechi, se proprio si vuole cambiare qualcosa, si cominci a guardare nelle amministrazioni centrali, non certo in quelle locali, che non controllano più del 13% della spesa pubblica italiana.
 

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