Ogni tanto ritorna, come certe rondini che non fanno primavera, un attacco politicamente sguaiato e istituzionalmente sgrammaticato alle autonomie speciali della nostra repubblica: la Sicilia, la Sardegna, la Valle d'Aosta, la provincia autonoma del Trentino, la provincia autonoma del Sud Tirolo, la regione autonoma Friuli-Venezia Giulia.
Fatta la tara alle semplificazioni mediatiche, ogni persona che ami ragionevolmente il proprio territorio e che creda nella democrazia locale, può tranquillamente rendersi conto che dietro questi attacchi ci sono preoccupanti dosi di populismo autoritario e tentazioni neocentralistiche.
Noi le respingiamo entrambe e stigmatizziamo anche quel pizzico di invidia economico-sociale e di odio per le diversità culturali e geopolitiche, che qua e là fa capolino nel coro degli indignati.
E' davvero troppo comodo prendersela con le autonomie speciali, quando si tratta di spiegare come mai, dopo 150 di unità italiana, il Trentino è efficiente, la Sicilia no; il Friuli si è sviluppato, la Sardegna molto meno.
Il regionalismo italiano è più che imperfetto, ma chi pensa che senza le regioni il paese sarebbe migliore, si sbaglia di grosso, sia storicamente, che politicamente.
Siccome studiare distanze geopolitiche e diseguaglianze sociali fa fatica - e gli studi meridionalisti sono passati di moda - si parla a vanvera, come se la vita politica in città e quella in montagna potessero essere organizzate allo stesso modo, come se una prefettura valesse un parlamento locale, come se il Nord fosse uguale al Sud, come se vivere al centro della repubblica o nella sua periferia fosse la stessa cosa.
Enrico Rossi, Matteo Renzi, riflettiamo seriamente, prima di avallare la tentazione centralista. In un paese grande, complesso, fragile e diviso, come la nostra malandata repubblica, sarebbe un pericoloso boomerang che, tornando indietro, farà parecchio male, soprattutto agli ultimi, ai deboli, ai lontani, ai diversi.
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