Un discorso diverso in Toscana, per chi crede, in questa nostra madreterra, in questa fugace vita, in qualcosa di diverso

giovedì 17 giugno 2004

Babbo, sono tornato comunista

Archiviamo e rilanciamo su Diverso Toscana uno scritto originariamente pubblicato il 17 giugno 2004, da Pisa, per S.Ranieri. Eravamo in un momento difficile del nostro impegno per il superamento della vecchia sinistra toscana, della nostra opposizione storica al sessantennio e al partito-stato. Cominciavamo appena a intravedere la possibilità di partecipare, come avremmo fatto poi con la candidatura Antichi nel 2005, a una importante tentativo di creare una nuova area politica civico-liberale, una alternativa e non solo una alternanza, anche in Toscana. Con questo scritto attaccammo l'aristocrazia rossa, che allora aveva ancora saldamente il potere in Toscana. Ci sono tornate in mente queste righe oggi, 8 ottobre 2012, grazie a un articolo molto bello, pubblicato da Il Foglio, nel suo paginone centrale II-III, firmato da Enrico Deaglio, intitolato "Renzi il giovane vs Bersani il vecchio". La cosa più bella dell'articolo, a nostro parere, è questa: né Renzi, né Bersani (né Vendola, né gli altri concorrenti) sono in alcun modo membri dell'aristocrazia rossa. Così, chiunque vinca le prossime primarie del PD, il 25 novembre 2012, non resterà nulla della vecchia nomenklatura che abbiamo lealmente contrastato, né della sua aspirazione a conservare una egemonia ormai svuotata da ogni contenuto gramsciano di liberazione politica ed emancipazione sociale, ridotta a mera riproduzione di casta, a pura conservazione di potere e privilegi. E' finita, per quella elite inamovibile contro cui lanciammo, con durezza ma anche con ironia, questo modesto scritto. Possiamo scriverlo? E' la conferma che qualcosa può cambiare, che vale la pena studiare e impegnarsi, che possiamo aspirare a vedere un rimescolamento delle carte, che c'è sempre la possibilità di una circolazione lapiriana di speranza contro ogni speranza (NdA). 




giovedì 17 giugno 2004
Testimonianza
di un anonimo principe
della Toscana
sulle vittorie elettorali del Centrosinistra
nel 2003 e nel 2004





Caro babbo,

sono tornato comunista.

Sono tornato qui. A prendere il mio posto, ad assumermi la responsabilità del mio retaggio, a governare come legittimo erede della dinastia.

Era dall’anno scorso che volevo scriverti questa lettera, sulla scia dell’entusiasmo per la vittoria del sindaco Fontanelli a Pisa. La sera dell’Ascensione, di ritorno dalla festa a S.Piero a Grado, avevo cominciato, forse ispirato dalla solidità di quelle antiche pietre, dalla gioia che leggevo nei volti dei nostri militanti dopo il successo elettorale, dalla facilità con cui il bianco frizzantino mi scendeva nella gola.

Poi è rimasta lì, assieme a tante altre cose. Un anno intero è volato. Sono stato impegnato dalla sistemazione della mia nuova villa su queste colline, da cui si vede la nostra amata Versilia, Pisa e persino il porto di Livorno.

Sono stato impegnato anche nel nuovo lavoro, davvero, non ti preoccupare. L’ho preso sul serio.

La nostra grande famiglia, il nostro partito, mi ha accolto come il figliol prodigo, facendomi entrare in una prestigiosa istituzione, in cui il posto per me non ci sarebbe mai stato, se fossi stato solo l’economista ambizioso e ribelle che fuggì da te, anni fa. Ho avuto questo incarico perché sono il tuo erede, il pronipote di uno dei fondatori del PCI, il nipote di un dirigente del CLN della Toscana, il figlio di un grande sindaco comunista.

Sono tornato in seno alla mia terra, alla mia famiglia, al mio partito, dopo tanto girovagare in giro per l’Europa e per l’America in cerca non so più neanche io di cosa. Finalmente comprendo anch’io, con nettezza, la grandezza dell’opera sociale di cui sono erede.

E mi manchi, babbo.

Vorrei che tu avessi assistito a questo mio ritorno.

Sono con i cugini di Prato, di Livorno e di Arezzo, a cui mi sono riavvicinato.

Non siamo stati tutta la notte a parlare di politica, babbo, non ti preoccupare.

Siamo stati per le strade di Pisa a bere e a ballare.

Ho ancora negli occhi i Lungarni splendenti della Luminara.

Ci siamo divertiti, ma abbiamo anche festeggiato le nostre rinnovate vittorie elettorali e politiche: le vittorie dell’Ulivo e del Centrosinistra, in queste Europee e Amministrative del 2004, qui in Toscana.

Ora i miei compagni di baldoria dormono. Io invece non ho sonno.

Forse sono ancora un po’ ubriaco… Me ne accorgo da quanto vorrei che tu fossi qui, a stringermi fra le braccia…

E’ quasi l’alba del giorno di S.Ranieri, babbo.

Sono seduto alla tua scrivania preferita, quella di mogano massiccio, così antica e solenne, macchiata di inchiostro e odorosa di tabacco.

Saresti stato felice di rivederci tutti insieme e goderti la luce di questo nuovo giorno e il profumo intenso dei gelsomini.

La più grande rabbia di un Toscano, dicevi quando ormai eri vicino alla fine, è che anche la vita più lunga sembra un passaggio troppo breve in questo che è il paese più bello del mondo.

Non per merito nostro, dicevi, sei sempre stato troppo rigoroso sulla nostra storia per arrogare alla nostra egemonia meriti impropri. Con la franchezza che solo i grandi si possono permettere, sostenevi che abbiamo solo rovinato la nostra terra molto meno di quanto altre classi dirigenti del XX secolo hanno fatto con i loro paesi e le loro città, sia nel mondo capitalista, che in quello socialista, che nell’inferno del terzo mondo.

Socialdemocratici nordici, democratici americani, socialisti francesi e spagnoli, peronisti argentini, comunisti russi e cinesi, nazionalisti arabi e africani, hanno reso le loro società tristi, povere, spesso tragiche, spingendo a conseguenze estreme il potere dei moderni partiti sulle masse, sfidando l’umanità, la storia, la tradizione, quello che gli esseri umani sono realmente.

Noi, in Toscana, siamo arrivati al potere con l’umiltà delle generazioni di militanti che hanno creduto nel partito e ne hanno fatto il moderno e insostituibile Principe della nostra società. Abbiamo esercitato con moderazione e responsabilità il nostro ruolo di servitori del popolo.

Raccogliemmo noi, alla fine del Ventennio e della guerra, i Toscani dalla paura e dal disorientamento. Il nostro ex compagno socialista e nazionalista, Benito Mussolini, aveva esercitato il potere in modo brutale ma anche così radicalmente innovativo. Aveva imposto alla Toscana un livello di conformismo politico forse mai raggiunto prima da nessun precedente regime. Al suo confronto il referendum truffa con cui la Toscana fu annessa allo stato sabaudo, le antiche egemonie dei club e delle logge laiche e liberali, i circoli clericali, le prime cooperative e opere popolari cattoliche e socialiste, sembravano preistoria della politica e le antiche tradizioni toscane di irriverenza e insofferenza verso il potere sembrarono definitivamente appannate.

Fummo noi a raccogliere quanto si poteva salvare e a spingere il popolo ad affidarsi ad una nuova classe dirigente, portatrice di valori sociali e nazionali, ma anche di moderazione, legalità, rispetto per i deboli, solidarietà con i poveri e gli affamati dalla guerra.

Siamo una classe dirigente accuratamente selezionata per cooptazione, certo cementata da meccanismi di fedeltà ai vertici, ma ancora capace di mandare avanti non solo i fedelissimi, ma anche alcuni capaci.

Siamo egemoni, ma siamo un governo realista, benevolo, pragmatico.

Per questo il popolo toscano ci ama e non ci abbandona.

La maggioranza assoluta dei Toscani adulti viventi ha votato, almeno un periodo della sua vita, per noi. Nel 1990, quando la Mosca dei sogni di tutti i comunisti crollava e l’Unione Sovietica si avviava allo scioglimento, il nostro partito aveva ancora un milione di voti, il 40%, da solo. Nel 2000, dopo il crollo di tutti i partiti della prima repubblica, salvo il nostro, avevamo ancora, da soli, il 37%. Alleati con i migliori esponenti della sinistra cattolica, laica e socialista della Toscana, abbiamo ancora, dappertutto, soprattutto quando chiamiamo a raccolta il nostro popolo e riusciamo a far votare almeno il 75% degli aventi diritto, la maggioranza assoluta.

Sono fiero che proprio te, babbo, fosti uno dei primi a chiedere riforme e cambiamenti, prima del crollo dei partiti del 1992. I nostri alleati e alcuni dei nostri stessi dirigenti sono troppo avidi, troppo disinvolti, ammonivi. Dobbiamo ricordarci che il popolo è come l’acqua. Oltre un certo limite non si può tenere.

Noi siamo i migliori pastori che i Toscani possano avere, dicevi, ma i Toscani meritano, per le loro antiche tradizioni, un governo moderato e prudente, che non esibisca sfacciatamente né la propria ricchezza, né il potere.

I nativi, fino agli anni ’60, erano solo poveri pescatori o montanari, mezzadri, piccoli proprietari, artigiani. Si sono affidati a noi perché la modernità e l’industrializzazione li hanno arricchiti, ma anche dislocati e disorientati.

Gli immigrati sono arrivati in gran parte da province povere di senso civico e di libertà e sono felici di aver trovato qui non altre o nuove mafie, ma strutture paternalistiche di governo, che hanno saputo guidarli e proteggerli.

Abbiamo dato alla Toscana grandi amministratori, che hanno saputo realizzare opere pubbliche e servizi sociali decorosi.

Non siamo stati incauti saccheggiatori del territorio e dei beni pubblici come certi socialisti del Nord o certi democristiani del Sud.

Non siamo stati arroganti con il popolo, né con gli umili, né con i ricchi.

I giornalisti, i professori, i magistrati, gli alti burocrati li abbiamo allevati noi, condividendo con loro il privilegio di appartenere alla nostra aristocrazia.

Il nostro prestigio morale è intatto. Grazie alla nostra moderazione, alla lezione di grandi uomini come te, noi siamo sopravvissuti, mentre gli altri partiti della vecchia repubblica sono stati annientati.

Noi ci avviamo, in un clima di grande fiducia e di stabilità, a festeggiare i nostri primi 60 anni al potere.

Tutti gli altri si limiteranno a festeggiare i 60 anni della liberazione dal Nazifascismo. Festeggeranno grazie a noi, non solo perché i partigiani comunisti furono la forza vincente nella guerra civile, ma soprattutto perché la nostra dirigenza politica decise di non proseguire la lotta armata fino alla conquista violenta del potere, alla fine della seconda guerra mondiale. Fu una scelta saggia, che ci ha fruttato tutto il potere che ci è stato possibile afferrare, grazie alla nostra graduale, nonviolenta, ma sistematica conquista dell’egemonia sociale.

Oggi che abbiamo cooptato anche gli eredi delle tradizioni cattoliche, laiche, socialiste e repubblicane, che ci accorgiamo di quanto il nostro elettorato sia fedele, stabile e manipolabile, ci rendiamo conto dell’eredità che te e gli altri padri del partito ci avete lasciato e delle responsabilità che, con gioia, siamo pronti ad assumerci come vostri eredi.

So che non potremo mai più usare quel nome ad alta voce…

In questa luce ancora fioca prima dell’alba, però, in questo attimo di riposo del creato e di gioia assoluta nel mio cuore, babbo ecco, lo scandisco ad alta voce: io sono comunista. Erede del bene assoluto, nato per conservare per sempre il potere che voi avete conquistato. Imperatore di una obbedienza perfetta: religione per chi crede, potere per chi ci teme, ricchezza per chi possiamo comprare.

Ieri il PCI, oggi l’Ulivo, ma sempre noi: l’incarnazione della volontà del popolo.

So cosa avresti detto dei buoni risultati dei molti partitini neocomunisti che sono nati alla nostra sinistra.

Usando il nome che noi non potremo usare mai più, ci aiutano a mantenere l’egemonia che abbiamo conquistato con tanta fatica. Conservano i vecchi nell’attaccamento ai nostri simboli, ai nostri miti, alle nostre tradizioni. Arruolano i giovani a credere, sempre più confusamente ma proprio per questo più ciecamente, che un altro mondo è possibile, un mondo in cui si possa essere felici nell’uguaglianza, senza la fatica di essere liberi e diversi.

Dopo una giovinezza passata nell’adesione a visioni semplificatrici della vita, manichee e anche un po’ religiose, cosa che non fa male in questo mondo povero di valori, avranno per tutta la vita bisogno di dividere il mondo in cattivi e buoni, per affidarsi poi a questi ultimi senza sforzo. Cioè a noi, che siamo l’unica incarnazione possibile dell’illusione di cui ubriacano la loro gioventù: una società uniforme, controllata e quindi giusta. E che abbiamo conquistato il potere sufficiente, locale e nazionale, per aiutarli, quando la più breve e dolce stagione della vita volge al termine, a trovare casa, lavoro, divertimento e consumi. Concretezza e sicurezza.

I neocomunisti da sinistra, i neopopolari del centro, le correnti sociali della nuova destra, i compagni di tutte le nuove opere private che vogliono essere finanziate dalla mano pubblica come e più delle vecchie, tutti insieme costoro ci aiutano a convincere ogni giorno di più gli umili e i deboli che senza l’aiuto dello Stato e degli Enti Locali, da sé, con le loro proprie forze, non possono fare nulla di buono.

E’ la dura ma benevola lezione del nostro saldo governo.

Noi non comprimiamo l’aspirazione naturale del Toscano a sentirsi padrone della sua casa e del suo lavoro, ma facendolo iscrivere ai nostri sindacati e patronati lo aiutiamo e lo controlliamo; assumendo sua moglie o suo figlio in comune gli garantiamo uno stipendio sicuro anche quando la sua azienda avrà momenti cupi; con le nostre cooperative, assicurazioni obbligatorie, scuole e asili pubblici, lo nutriamo, lo proteggiamo, lo divertiamo; in cambio di tutta questa provvidenza, non facciamo altro che rastrellare il suo voto e, di tanto in tanto, mobilitandolo per qualche buona causa, lo facciamo anche sentire migliore.

Mai del tutto sicuro, se si allontana da noi, ma mai veramente oppresso.

Il potere che esercitiamo è immenso, ma mai sfrontato, mai esibito, sempre condiviso con altri gruppi e poteri forti, sempre moderato e attento a non travalicare mai nei territori sconosciuti in cui non abbiamo mai conseguito un’autentica egemonia sociale.

Siamo, salvo rari eccessi, generosi con i nostri avversari più deboli, e duttili con quelli più forti.

L’ONU e l’Unione Europea sono piene di nostri funzionari e i programmi futuri di ampliamento dei poteri e dei bilanci di queste istanze internazionali sono i nostri. Quando ancora più denaro sarà dirottato verso queste istanze, la nostra aristocrazia sarà l’unica che potrà gestire e controllare un potere così alto e così lontano dagli occhi del popolo.

Sapremo farlo bene, distribuendo nella nostra terra, a coloro che si mostreranno degni e fedeli, i fondi internazionali e comunitari, alimentando così la nostra egemonia.

Saremo pronti come sempre ad estendere la nostra benevolenza sulle regioni depresse d’Italia, d’Europa, dell’intero pianeta. La sfida più grande della globalizzazione è essenzialmente quella della globalizzazione della nostra egemonia.

Le nostre relazioni politiche con movimenti, fazioni, persino gruppi clandestini, in tutto il mondo, sono talmente ampie e consolidate, che sapremo trovare il modo di tenere lontani dalla nostra terra, con la forza della politica e del denaro, i terrorismi internazionali vecchi e nuovi.

Sappiamo che sarà necessario combattere, perché nessun sanguinario nazionalismo prenda il potere sulle rive del Mediterraneo, ma per il momento è più giusto assecondare il popolo nella sua giusta e naturale paura della guerra. Il pacifismo è una corrente spirituale che ci ha sempre portato consenso e simpatia.

Se e quando dovremo combattere, lo faremo solo sotto coperture internazionali ampie, perché il nostro popolo accetta più volentieri i sacrifici, quando vede grandi liturgie laiche di presidenti democratici, socialisti, popolari, che, con estrema dignità e tristezza, annunciano in televisione che una vasta alleanza democratica internazionale sta per compiere una azione preventiva o difensiva di intervento umanitario armato. Senza mai, ovviamente, pronunciare la parola “guerra”, che non si addice ai rappresentanti del massimo bene possibile sulla terra.

Non abdicheremo mai allo straordinario monopolio del pensiero e della lingua con cui imponiamo a tutta l’opinione pubblica di chiamare la nostra politica estera, anche e soprattutto se armata, sempre e solo “pace”.

Non siamo del resto, proprio nel comunicare, assolutamente superiori ad ogni altra aristocrazia politica del pianeta? Fatta salva quella cinese, da cui, proprio come hai sempre pensato te, babbo, dobbiamo imparare qualcosa. Sembra che si tratti della prima classe politica della storia umana a noi nota, che sta riuscendo a far crescere la ricchezza del proprio immenso paese senza concedere al popolo alcuna libertà.

Questa ricchezza senza libertà, se non è un illusione, è sicuramente il frutto di una cultura dell’egemonia sofisticata, pragmatica e moderata almeno quanto la nostra. Non per nulla abbiamo aperto le porte della Toscana ai Cinesi, li abbiamo inondati di visite e missioni, speriamo in loro come partner economici.

Coloro che governano in Cina sono degni della nostra ammirazione, nonostante abbiano, nel terribile 1989, commesso il terribile sbaglio di Tien An Men. Del resto, ricorderesti te, babbo, chi di noi della sinistra mondiale, della grande tradizione socialista, comunista, popolare, non ha commesso sbagli nel terribile 1989?

Non esercitiamo, dalla Toscana, una egemonia stabile sul governo della Repubblica Italiana, ma con i nostri alleati delle altre regioni, abbiamo già dimostrato di essere abili amministratori delle grandi burocrazie e delle immense ricchezze che esse consumano. La maggior parte di esse sono state create da noi o dai nostri alleati cattolici e socialisti, oppure furono create da Mussolini. Le conosciamo, le controlliamo. Sappiamo ciò che esse soprattutto vogliono: sopravvivere. Sono organismi vivi, complessi, in esse comandano, giustamente ben pagati, i nostri rampolli, ma sono impiegati anche numeri importanti di nostri devoti e fedeli sostenitori.

Ti piaceva, babbo, la canzonetta di Gaber sui comunisti… Soprattutto in quel punto in cui ci dileggiava cantando: “Qualcuno era comunista perché voleva statalizzare tutto. Qualcuno era comunista perché non conosceva gli impiegati statali, parastatali e affini.”.

Ti strappava sempre un sorriso, perché la nostra egemonia si era sviluppata senza bisogno di statalizzare tutto. Anche la moltiplicazione delle assunzioni a vita di nostri fedeli nei comuni, nelle province, nella regione, negli enti e nelle aziende collegate, è stata da noi praticata più o meno come è avvenuto in tutti gli stati socialisti e democratici d’Europa. La nostra politica di assunzioni di massa, semmai, è stata più equa, favorendo ovunque le vedove, gli orfani, i veri poveri, purché nostri sostenitori.

A proposito di grandi burocrazie, babbo, chissà se hai cambiato idea sulla scelta  che facemmo nel nostro ultimo quinquennio di governo centrale, dal 1996 al 2001.

Scegliemmo di non rimuovere il duopolio Rai-Fininvest, perché era impossibile ridimensionare l’ultima senza toccare la prima. E la Rai era intoccabile, perché piena di nostri sostenitori, e governata da nostri funzionari e sindacalisti.

Questa cosa ti angustiava. Da una parte sapevi che, lasciando in piedi il duopolio, avremmo avuto ancora per anni, come avversario sempre moralmente attaccabile, il proprietario della Fininvest. Questo è stato ed è tuttora un indubbio vantaggio propagandistico.

Dall’altra parte, non stiamo forse rischiando che sia il Centrodestra a fare una riforma che noi non potremmo controllare? E se Bossi riuscisse a portare Raidue a Milano?

A questo punto, è ovvio, mi sembra di vederti… Mi faresti un grande sorriso e mi diresti pacatamente: se non siamo mai riusciti noi a spostare un solo giornalista da Roma a Firenze, come pensi che riusciranno Bossi, Follini, Fini, Berlusconi, a spostare una intera rete?

Il federalismo? Lo faremo noi, con calma, la prossima volta che riprenderemo saldamente il potere a Roma, sicuri che l’aumento del potere locale non diminuirà i guadagni e lo status della nostra classe dirigente centrale. Sposteremo poteri e risorse verso gli enti locali, che moltiplicheremo e le cui competenze manterremo il più possibile confuse, sovrapposte, di difficile comprensione per i cittadini. Così che il popolo senta sempre più bisogno qui della nostra egemonia e altrove possa desiderare la nostra forza unificante, o almeno ammirare la nostra capacità di controllare e paralizzare gli avversari.

L’enorme deficit che abbiamo accumulato, cogestendo la spesa pubblica assieme a tutti i partiti della prima repubblica, sapremo gestirlo noi. Con la sola manovra dell’Euro, noi e i nostri alleati nell’Unione Europea, non lo abbiamo praticamente dimezzato? Abbiamo azzardato un tasso di cambio fra la vecchia Lira e l’Euro che ha prodotto, in una sola notte d’inizio 2002, una svalutazione praticamente del 50%. Ci è andata bene, perché del traumatico raddoppiarsi di tutti i prezzi fuori dal paniere Istat (cioè di tutte le cose che contano veramente, come l’acquisto di una casa), per la necessaria convergenza con i prezzi in Euro di tutta Europa, la nostra gente oggi dà la colpa al governo Berlusconi.

Le persone che ora devono campare con meno di 1.000 Euro al mese, saremo noi ad aiutarle, quando, più prima che poi, torneremo a Roma.

Con abilità sappiamo dirigere la rabbia del nostro popolo contro il governo attuale, che abbiamo saputo rappresentare, con una abile comunicazione, persino troppo detestabile. Siamo stati forse persino eccessivi, rischiando un pochino della nostra credibilità. Te, babbo, avresti raccomandato moderazione. Stiamo rischiando di ingigantire inutilmente la statura dei nostri avversari e di rivelare la capacità di mentire che ci viene dal nostro ormai secolare addestramento leninista.

So che molti dei nostri problemi di immagine, di strategia e di tattica, ci vengono dall’ingenuità dei dirigenti di regioni in cui la sinistra non esercita alcuna egemonia. Le elezioni si succedono per loro sempre troppo frequentemente. Subiscono continuamente l’alternanza. Il popolo si diverte a cambiare voto e loro sentono il bisogno di inseguire e blandire l’elettorato.

Come ringrazio la cieca fortuna, babbo, che mi ha regalato la nascita in seno ad una aristocrazia forte, che guida saldamente e stabilmente il partito egemone della nostra Toscana, in cui, salvo le rare e temporanee eccezioni di qualche sperduto putrido borgo, l’elettorato è stabile e la nostra maggioranza assoluta inossidabile.

Quanta calma, quanta pazienza, ci regala l’egemonia costruita dal sudore e dal sangue dei nostri padri. Abbiamo sempre tempo. Per digerire gli scontri interni alla nostra classe dirigente. Per diluire anche le crisi e i problemi più gravi. Per rimandare tutto quello che non è possibile affrontare. Per sostituire con calma nostri rappresentanti che si rivelino troppo arroganti o inetti. Per goderci anche un po’ la vita e la nostra meritata ricchezza, perché siamo nati per comandare, ma non dobbiamo certo privarci delle piccole gioie della vita.

Grazie alla fedeltà dei contadini, alla dedizione degli operai la cui vita era scandita dalle sirene della fabbrica e dai proclami del partito, all’ingenua e gioiosa adesione alla nostra propaganda di tante generazioni di studenti arrabbiati, noi siamo qui.

Costringiamo tutti a vederci come i migliori, perché ne siamo prima di tutto convinti noi stessi. Persino i nostri avversari, nel loro intimo, riconoscono la nostra superiorità morale e, le rare volte che qualcuno di loro ha preso il potere sul nostro territorio, non ha saputo né forse potuto fare altro che proseguire la nostra opera, investendo nelle nostre opere sociali e nelle opere pubbliche da noi impostate, in definitiva continuando ad alimentare la nostra egemonia e preparando indirettamente il nostro ritorno al potere.

Vegliamo sui sogni e sulle speranze più intime della nostra gente, ma non ci dimentichiamo di loro anche quando la sveglia li rigetta ogni mattina nella fatica quotidiana della vita.

Siamo noi a dettare le principali linee morali ai nostri sudditi che abbiamo innalzato a cittadini e compagni, restando peraltro sempre al di sopra e al riparo di ogni loro giudizio.

Siamo, con le nostre case del popolo, le feste, i concerti gratuiti, gli arbitri del divertimento, della società, forse persino dell’amore. Con le nostre parrocchie cattoliche e con le nostre liturgie laiche, siamo insostituibili custodi dell’anima della nostra gente.

Non credo in Dio, babbo, ma credo nel destino dei comunisti, oggi post-comunisti, sempre egemoni in Toscana: avere preso il potere e rimanerci per sempre.

E’ un fardello troppo pesante, anche se gioioso?

Abbiamo sulle spalle troppe istituzioni e nelle mani il destino di troppe persone?

So cosa mi diresti te, a questo punto: siamo un pezzo di storia, non di attualità politica.

Penso spesso, babbo, al fatto che nessuno ride di noi, o ci irride, o ci insulta, specialmente in Toscana, né i nostri comici più famosi, né il Vernacoliere, né le pesti e le sagome dei mercati fiorentini o del porto labronico. A parte il tuo amato e odiato Gaber, a parte qualche battuta del genovese Grillo, su di noi, specialmente in Toscana e da parte dei Toscani, non esiste praticamente alcuna forma di satira politica. Non mi meraviglio della tristezza e della mancanza di fantasia dei nostri oppositori, che sono pochi, spauriti, continuamente tentati dalle nostre abili politiche di cooptazione e mediazione. Mi sorprende invece la totale assenza di una musica ribelle, di una canzone graffiante, di un’arte figurativa rivelatrice, di una fotografia e di un cinema di denuncia. Abbiamo dunque creato un pensiero così unificante e soffocante, da non meritarci neppure un giullare di corte, un artista maledetto, un intellettuale scomodo?

Il rischio di essere i padroni di un laghetto che potrebbe diventare stagnante e putrido c’è, per noi come per le classi dirigenti di ogni tempo e luogo. E’ inutile negare che il marxismo ci ha lasciato una visione del mondo così semplicistica e tanto rassicurante da farci correre il rischio di non sentire il nostro stesso puzzo di pesce morto.

E’ difficile per me, aristocratico capo della sinistra di ascendenza comunista e quarta generazione di una famiglia votata al comando, non peccare di arroganza e non abusare della mia fortuna, caro babbo, ma cercherò con tutte le forze di fare il mio dovere.

Almeno finché dal popolo toscano, o più probabilmente dal nostro seno, non scaturirà chi potrà prendere il nostro posto, in un futuro lontanissimo.

Augurandoci che sia, come siamo stati in parte noi: più pastori che padroni, più custodi che dittatori, più rispettosi della Toscana come veramente è, che arroganti trasformatori e magari distruttori della nostra amata madreterra.


* * *

a cura di Mauro Vaiani (vaiani@unipi.it )
 


Fonte:
http://www.toscanalibertaria.org/cammino/2004-06-17-anonimo-toscano.html
(acceduto lunedì 8 ottobre 2012)

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