Un discorso diverso in Toscana, per chi crede, in questa nostra madreterra, in questa fugace vita, in qualcosa di diverso

domenica 23 settembre 2018

Le catene del debito son sempre lì





Abbiamo elaborato alcuni dati sulla spesa pubblica italiana. La fonte principale di questi dati è uno scritto del noto Carlo Cottarelli (La lista della spesa, 2015).

Questi i dati in forma tabellare:


Spesa pubblica italiana (2013)
%
Pensioni e previdenza
39
Burocrazia statale
13
Sanità
13
Interessi debito
10
Istruzione statale
8
Comuni e province
9
Regioni
4
Altro
3
UE
2



Totale
100


Non pretendiamo di mostrarvi nulla di particolarmente originale, ma solo di segnalarvi alcuni dati strutturali della spesa pubblica italiana, che possano mettere l'occasionale lettore al riparo dalle favole e dalle bufale più grandi, in particolare quelle messe in giro dai media fedeli allo status quo centralista, reazionario, estrattivo e autoritario. Esempio: le regioni sono carrozzoni che spendono troppo e hanno rovinato la repubblica... Sì, sì, con il 4% della torta le regioni sono la causa di tutti i mali... Vabbe', gli asini volano.

Avvertenze: 1) la torta della spesa pubblica italiana è oltre 800 miliardi, poco più delle entrate; 2) il nostro deficit annuale è basso e se non fosse per gli interessi sul debito noi saremmo un paese anche troppo austero; 3) i governi negli anni possono aver spostato questi numeri di qualche decimale, ma nessuno ha modificato la struttura fondamentale di questa torta.

Attenzione: queste percentuali sono molto arrotondate e alcune di esse sono solo stime; non prendetele per oro colato; non sottovalutate mai che lo 0,1 di questa torta è praticamente un miliardo di Euro, non noccioline.

Attenzione ancora più grande: alcune di queste percentuali sono indicative, ma non pensate che, anche memorizzando questa torta, avete compreso la spesa pubblica italiana, tanto meno i rapporti di forza che ci sono fra le istituzioni in questa repubblica.

Un primo esempio: vedete che la sanità è al 13%, formalmente gestita dalle regioni, ma all'interno di un perimetro centralista sempre più stringente. Un secondo esempio: la Unione Europea ci consuma il 2%, cioè poco, ma ha un potere molto più grande di quello che questa cifra suggerisce. Un terzo e ultimo esempio: la quota che lo stato lascia a comuni e province è ridicola (9%), ma deve essere chiaro che il centralismo non lascia affatto comuni e province liberi di gestire questa piccola fetta come ritengano meglio. 

Altre tre cose importanti che questa torta ci dice, a nostro modesto parere, sono:

- la spesa centrale e centralista è preponderante rispetto a quella delle regioni e degli enti locali, quindi, se vogliamo cambiare qualcosa, dovremmo cominciare dal centro e smettere di massacrare le comunità locali;

- l'enorme capitolo della previdenza (39%) non è immodificabile, una redistribuzione dai più ricchi verso i più poveri è possibile, eccome;

- il 10% l'anno di spesa per gli interessi sul debito pubblico è un problema serio, che non potremo risolvere lasciando il debito sul mercato - in balìa dello "spread".

Siamo incatenati a uno stato centralista, tendenzialmente autoritario, fortemente condizionato dalla legislazione tecnocratica europea, prigioniero di un immenso debito pubblico gestito in modo "privatistico" sul mercato.

Per noi decentralisti è chiaro che non possiamo andare avanti così.

Noi vogliamo ribaltare questa torta, completamente.

Vogliamo che tre quarti delle risorse dei territori restino sui territori, come avviene diciamo grosso modo in Trentino.

Vogliamo spezzare l'immenso debito pubblico in fette pro-quota per ciascun territorio italiano, ciascuna gestita da istituzioni pubbliche locali, congelato attraverso strumenti come gli infruttini, o la moneta fiscale di Stefano Sylos Labini, o altri strumenti non convenzionali che, con gradualità e nel rispetto degli interessi dei piccoli e medi risparmiatori, ci consentano di uscire dallo status quo.

Vogliamo che si prenda atto che così non si può andare avanti, che la crescita è finita (il pianeta è sfinito, come hanno scritto i bravissimi Luca Pardi e Jacopo Simonetta), che il debito è irripagabile con strumenti di mercato, che il centralismo è totalmente senza futuro perché in un paese grande, complesso, lungo come l'Italia, non esiste praticamente alcun provvedimento legislativo che possa funzionare dalle Alpi a Pantelleria.

Non chiediamo troppo, vogliamo solo riprenderci il controllo di tutto.

sabato 22 settembre 2018

Una base di meno


Appoggiamo risolutamente e convintamente la chiusura di Camp Darby, la base militare americana in Toscana che è ormai priva di ogni significato geopolitico.

Per gli USA, che hanno un impero di migliaia di basi in tutto il mondo, sarà una piccola cosa e magari non trovano il tempo di occuparsene. Per noi toscani, invece, è importante.

La chiusura di Camp Darby, fra le altre conseguenze positive, avrà anche quella di sancire che è finito il tempo della insana "esportazione della democrazia" verso i paesi del Maghreb, il Levante, l'Oriente.


domenica 16 settembre 2018

Ripensamento fra Val di Pesa e Val d'Elsa



I pochi che seguono questo blog, sanno che qui si è creduto molto nella possibilità di autoriforma dal basso dei comuni toscani, anche attraverso le loro unificazioni in comuni più ampi, ma non secondo una logica centralista e verticale, bensì nell'ottica di rafforzare e valorizzare ogni singolo paesino della Toscana (e nelle zone più urbanizzate ogni singolo rione).

Negli anni ci siamo spesi perché, parallelamente con la lotta per l'abolizione delle province, delle prefetture e di tanti altri enti intermedi artificiali o espressione del centralismo, si formassero dal basso - anche a Costituzione e legislazione invariata - dei comuni-comunità, capaci di restituire autogoverno, servizi, qualità e bellezza a ciascuna delle loro frazioni. Lo abbiamo fatto, per esempio, in occasione delle ambiziose consultazioni che hanno riguardato la possibilità di fare un comune unico nel Casentino (2012) o all'Elba (2013).

Dobbiamo ammettere, a distanza di anni, che queste idee giuste sono state stravolte da politiche sbagliate e da politici ignoranti e prepotenti. L'ANCI Toscana ha cavalcato alcune unificazioni comunali di corto o cortissimo respiro, che si sono rivelate un fallimento in termini di difesa della vita dei paesi e delle frazioni. In alcuni casi si sono volute unire coppie di comuni, con la principale preoccupazione di garantire alle amministrazioni uscenti un terzo mandato. La Regione Toscana ha messo dei soldi a disposizione delle unificazioni. Si tratta di mancette rispetto alla quantità di fondi che lo stato centrale ha tolto ai comuni, ma di certo non aiutano una discussione libera e serena.

Infine - e questa è forse la cosa più grave di tutte - il Consiglio regionale della Toscana si è assunto la grave responsabilità di forzare la volontà delle popolazioni locali, violando l'art. 133 della Costituzione. E' successo quando è stata imposta dall'alto la fusione ai comuni di Abetone e Cutigliano, considerando che la volontà popolare espressa dal comune più grande potesse sovrastare la volontà popolare del comune più piccolo.

Una scelta grave, quella del Parlamento toscano presieduto da Eugenio Giani, a cui non è stata ancora data adeguata riparazione.

La prossima tornata di referendum per la fusione dei comuni è prevista per l'11 e il 12 novembre 2018. Fra le comunità chiamate a pronunciarsi ce ne sono due che conosciamo un po' meglio delle altre: Tavarnelle, in Val di Pesa, e Barberino, in Val d'Elsa. 

Siamo stati a Barberino Val d'Elsa a parlarne direttamente con gli esponenti dello storico movimento civico Obiettivo Comune, a cui siamo vicini e con cui grazie a Michele Bazzani. Ne abbiamo riparlato con l'attuale guida del movimento civico, Paolo Tacconi.

Dalla riflessione sin qui condotta, ci siamo fatti l'idea che su tutte queste unificazioni imposte dall'alto - preparate attraverso una serie di scelte che negli anni hanno reso i paesi toscani meno vivi (come la chiusura delle scuole nei centri storici), rese più accattivanti con una elargizione di fondi regionali che somigliano molto a un ricatto politico, imposte ai comuni piccoli in violazione dell'art. 133 della Costituzione - occorra un momento di ripensamento.
 
Queste unificazioni, in queste attuali condizioni, ci allontanano e non ci avvicinano alla nostra ideale rivoluzione paesana.

Per cui, nonostante le difficoltà di farsi sentire e di farsi ascoltare in Toscana, noi, al momento e salvo approfondimento,  aggiungiamo la nostra piccola voce a quella di coloro che dicono NO.


martedì 11 settembre 2018

Per la Catalogna



Un piccolo ma significativo gruppo di attivisti e intellettuali decentralisti d'Italia ha diffuso, in questa straordinaria giornata della #Diada2018, un appello per la libertà dei prigionieri politici catalani e per l'autodeterminazione della Catalogna.

Potete trovare l'appello integrale e la lista dei primi firmatari, qui:



Difendiamo i diritti dei catalani, difendiamo la libertà in Europa

La Catalogna vive una vicenda storica che non riguarda soltanto spagnoli e catalani, ma tocca da vicino tutti i cittadini europei. Dinanzi alla repressione in atto, noi sottoscritti chiediamo la liberazione dei prigionieri politici catalani, il ripristino dei diritti umani e politici degli attivisti e degli elettori indipendentisti, il diritto al ritorno in sicurezza per gli esiliati, il riconoscimento del diritto all’autodeterminazione del popolo catalano.

La riduzione della crisi catalana a problema giudiziario sta facendo scivolare la Spagna fuori dal perimetro della tradizione democratica europea, mettendone in discussione capisaldi quali la libertà di pensiero e di azione politica. Come europei sentiamo il dovere di rifiutare l’idea che iniziative politiche pacifiche siano represse con la forza e che esponenti del mondo politico e culturale vengano intimiditi, privati dei loro beni, incarcerati, privati della possibilità di difendersi in processi equi davanti a tribunali indipendenti.

Non vogliamo credere che la Spagna scelga di riaprire le ferite della Guerra civile, nel corso della quale l’autogoverno catalano fu schiacciato nel sangue. Ci aspettiamo quindi al più presto – quale precondizione a ogni futuro dialogo politico – la liberazione dei prigionieri politici.

Siamo coscienti che il referendum di autodeterminazione celebrato in Catalogna il primo ottobre 2017, alla fine di una lunga, estenuante e vana stagione di trattative con Madrid, si sia configurato come una rivolta nonviolenta contro il sistema di legalità spagnolo, ma proprio per questo esigiamo che le istituzioni europee e iberiche lo affrontino e lo gestiscano come un problema politico.

La richiesta del governo legittimo della Catalogna di poter votare sull’indipendenza della propria nazione ci proietta verso una concezione più avanzata della democrazia e ci invita a impegnarsi per un’Europa nuova, che evolva come libera confederazione di comunità, regioni e territori liberi di autogovernarsi.

Nel nostro mondo globalizzato e interconnesso l’autodeterminazione è diritto inalienabile di ciascuna persona umana. Non ci riguarda solo come individui, ma anche come comunità territoriali storicamente, socialmente e politicamente determinate. Non è concepibile che una matura esigenza di autodeterminazione, come quella della Catalogna, possa essere repressa. Se le costituzioni continuano a prevedere grandi stati “indivisibili”, saranno esse a dover cambiare di fronte alle esigenze di autogoverno che emergono in ogni angolo d’Europa e del mondo.

Il conflitto istituzionale in corso può e deve essere risolto attraverso un dialogo politico paritario, a cui partecipino il governo spagnolo, il legittimo presidente catalano Carles Puigdemont, le forze politiche e sociali della Catalogna, oltre che – se richiesti – rappresentanti europei e internazionali in funzione di osservatori e mediatori.

Ogni tipo di compromesso è possibile, nel quadro di un ordinamento europeo che già in passato si è mostrato saggiamente duttile nella capacità di includere intere comunità (nel caso della Germania Est, ad esempio) o di associarle in modo diversificato (come nel caso della Groenlandia e di altri territori). L’importante è dialogare senza pregiudizi, ma anzi avendo fiducia nelle forze politiche e sociali catalane, nella loro maturità, nel loro saldo ancoraggio ai valori della civiltà europea.

Continuare invece a negare alla Catalogna il diritto di votare sul proprio futuro, significa per l’Europa rinunciare a difendere principi di democrazia sostanziale e di avviarsi verso una deriva centralista e autoritaria.

Rivolgiamo, quindi, questo appello a tutte le formazioni politiche e sociali, affinché sia discusso in ogni possibile sede.

Chiediamo a tutte le istituzioni democratiche, dai consigli locali fino al Parlamento europeo, di procedere con propri atti a chiedere la liberazione dei prigionieri politici e la fine delle persecuzioni degli indipendentisti, il pieno rispetto dell’autonomia catalana, il ristabilimento in Spagna di una giustizia indipendente dal governo, il riconoscimento del diritto della Catalogna ad autodeterminarsi.

11 settembre 2018

Primi firmatari

Nome

Cognome

Presentazione

Territorio

Samuele

Albonetti

Coordinatore Movimento per l’Autonomia della Romagna

Romagna

Roberto

Baggio

Commercialista

Veneto

Loredana

Barbaro

Imprenditrice

Lombardia

Gian Angelo

Bellati

Venetinet

Veneto

Roberto

Bolzan

Imprenditore

Emilia

Paolo

Bonacchi

Unione Federalista

Toscana

Roberto

Brazzale

Imprenditore

Veneto

Giacomo

Consalez

Professore universitario

Lombardia

Loris

Degli Esposti

Toscana

Marco

Di Bari


Toscana

Rosario

Di Maggio


Friuli

Marco

Faraci

Saggista e contributore di Strade

Toscana

Andrea

Favaro

Professore universitario

Veneto

Giacomo

Fiaschi

Imprenditore e intellettuale toscano all’estero

Tunisia

Michele

Fiorini

Avvocato

Veneto

Renzo

Fogliata

Storico e avvocato

Veneto

Mauro

Gargaglione

Quadro d’impresa

Lombardia

Antonio

Guadagnini

Consigliere Regionale del Veneto – Siamo Veneto

Veneto

Lorenzo

Imbasciati

Imprenditore

Lombardia

Luca

Isetti

Quadro d’impresa

Lombardia

Carlo

Lottieri

Professore universitario

Veneto

Guglielmo

Lupi

RF – L’Altra Repubblica

Toscana

Gianluca

Marchi

Associazione culturale “Gilberto Oneto”

Lombardia

Francesco C.

Marsala

Presidente Associazione culturale Sicilia-Catalunya

Sicilia

Simone

Montagnani

Toscana

Alessio

Morosin

Indipendenza Veneta

Veneto

Valerio

Piga

Segretario Radicales Sardos – ADN

Sardegna

Daniela

Piolini Oneto

Associazione culturale “Gilberto Oneto”

Piemonte

Sergio

Pirozzi

Consigliere Regionale del Lazio

Lazio

Sergio

Salvi

Scrittore e intellettuale toscanista

Toscana

Federico

Simeoni

Segretario Patrie Furlane

Friuli

Alessandro

Trentin

Imprenditore

Veneto

Mauro

Vaiani

Toscana



Pochi giorni dopo la pubblicazione dell’appello hanno confermato la loro adesione, fra gli altri, anche:



Tommaso

Cabrini

Quadro d’impresa

Lombardia

Luigi Marco

Bassani

Professore universitario

Lombardia

Carlo

Vivarelli

Attivista

Toscana

Roberto

Stefanazzi Bossi

Associazione culturale “Gilberto Oneto”

Lombardia

Ciro

Lomonte

Segretario Siciliani Liberi

Sicilia

Simona

Anichini

Traduttrice – Foreign Friends of Catalonia

Toscana



Ultimo aggiornamento: 25 ottobre 2018




sabato 8 settembre 2018

Gellner, il razzismo, la Svezia e noi




Dall'80° anniversario delle leggi razziali promulgate da San Rossore dall'infame Vittorio Emanuele III, alle elezioni svedesi che si celebreranno domani, domenica 9 settembre 2018, passando per le cronache di questi anni e per l'attualità politica, è tutto un proliferare di grandi discorsi anti-razzisti.
Non aggiungeremo la nostra piccola voce a questa babele di tante parole e di pochissimi fatti.
Ci limitiamo a commentare alcune intuizioni di uno scienziato sociale importante: Ernest Gellner (1925-2005).
Gellner fu uno studioso boemo-inglese (cosa che lo avvicina per più di un aspetto allo scienziato sudeto-boemo-americano che l'autore di questi post considera uno dei suoi principali punti di riferimento, Karl Deutsch).
Citeremo le pagine di un libro che meriterebbe di essere meglio conosciuto anche in Italia, Thought and Change, del 1964 (Pensiero e cambiamento, di cui purtroppo non sapremmo al momento segnalare traduzioni italiane).
Nella riflessione di Gellner i conflitti etnico-culturali-religiosi non sono una maledizione biblica, non vengono da un oscuro passato, non sono una ritornante superstizione, non sono un degrado della moralità pubblica, comunitaria o individuale.
Essi sono la conseguenza di disuguaglianze (e di ingiustizie) strutturali.
Se c'è chi è strutturalmente favorito e chi è strutturalmente sfavorito nella rigida crudeltà della società moderna, seguendo Gellner, si possono avere diversi esiti negativi che noi chiamiamo, forse troppo semplicisticamente, "razzismo".

Il potere può scatenare le masse contro minoranze che paiono "privilegiate", per esempio, come hanno fatto nazisti e fascisti contro gli Ebrei, i nazionalisti turchi contro gli Armeni, i franchisti contro i Catalani.
Oppure il potere può cavalcare cinicamente le disparità fra territori più ricchi e più arretrati (le stesse disparità che il centralismo militarista e colonialista ha magari creato o lasciato allargare).
Se fra le popolazioni, poi, ci sono anche differenze di aspetto o di tratti culturali rigidi, questo non può che inasprire il conflitto.
Alcuni esempi: protestanti contro cattolici, bianchi contro neri, musulmani contro indù, Hutu contro Tutsi e, più in generale, nativi contro immigrati.
Se le popolazioni sono mescolate, i potenti possono facilmente organizzare stragi e violenze, fino a far precipitare la situazione.
Ma se anche le popolazioni vivono in territori diversi, i centri dominanti possono comunque avere interesse a scatenare la violenza nelle periferie ribelli.
Questi razzismi sono una cosa molto moderna e contemporanea.
Non è una malattia. Non un accidente. Non la manifestazione di una qualche "cattiveria" individuale o comunitaria.
Sono invece una diretta conseguenza del centralismo, del militarismo, del colonialismo, delle ingiustizie strutturali, dell'ignoranza promossa dai media di regime, nel mondo globalizzato di oggi.

* * *

Come studiosi - non solo e non tanto come attivisti decentralisti - siamo certi, guardando ai numeri del mondo contemporaneo, che le comunità politiche più piccole soffrono meno il divampare del razzismo moderno.
Ciò è dovuto al fatto che esse hanno maggiori probabilità di essere rette da regimi più inclusivi e più equanimi, non fosse altro che per il più diretto rapporto fra governati e governanti.

Questa maggiore probabilità di essere società più umane, però, non mette al riparo da tutto.

* * *

In Svezia, per esempio, paese che pure è un esempio per tanti e in tanti campi, si sono lasciate crescere alcune strutturali ingiustizie, che per di più hanno riguardato gli immigrati (che sono ancora, in gran parte, riconoscibili come tali, per il loro aspetto o per la loro cultura), ma non solo.
Fra queste ingiustizie ne vogliamo ricordare alcune delle più evidenti:
- si sono abbandonate molte comunità periferiche, in cui vivono forse troppi immigrati, ma soprattutto svedesi più poveri, più anziani, più deboli;
- si sono lasciate crescere le seconde e le terze generazioni dei nuovi arrivati in veri e propri quartieri ghetto, dove giovani svedesi "diversi", in vario modo emarginati, hanno finito per formare addirittura delle bande "etniche" violente e criminali;
- si sono fatti male molti conti sulla quantità di posti di lavoro decenti e di buoni stipendi che la società svedese avrebbe potuto produrre, sia per i nuovi arrivati che per le persone native; per un immigrato che ce l'ha fatta, se ne sono lasciati indietro molti altri ai livelli di sussistenza (e prigionieri della trappola dell'assistenzialismo); senza contare che un immigrato di "successo" può anche attirare forme di invidia sociale dai suoi concittadini (magari svedesi di vecchia data) che hanno dovuto subire gli effetti del generale impoverimento delle classi medie;
- infine si sono abbandonate, nel nome del "politicamente corretto" e di una certa cultura dell'esonero dalle responsabilità e dei sacrifici, le necessarie, serie e severe politiche di istruzione pubblica, di trasmissione dei doveri civici minimi, di imposizione di regole severe contro le discriminazioni (a protezione delle donne e dei gay), lasciando che si formassero sacche di "separatismo" ghettizzante, deresponsabilizzante, in definitiva criminogeno.
Qui, per esempio, potete leggere un articolo sul tema delicatissimo dei matrimoni imposti ai minori immigrati. La situazione è davvero complessa e difficile.
Nei prossimi giorni saranno tutti esperti di Svezia e di razzismo, ma non so se si riuscirà a rompere il conformismo dei nostri media, che non vogliono mai discutere i problemi nella loro profondità.
E tanto meno accettano che si discutano i problemi che tutte le comunità locali hanno nei grandi processi di integrazione economica e sociale, a partire da quelli europei.

* * *

- fonte della foto: http://theduran.com/feminist-politician-barbro-sorman-says-swedish-men-rape-choice-migrants-rape-ignorance/

- una lettura per chi vuole approfondire: https://www.nytimes.com/reuters/2018/09/05/world/middleeast/05reuters-sweden-election-ljusnarsberg-insight.html

- chi ha tempo segua l'hashtag di Twitter: https://twitter.com/search?q=%23SwedenElection

 

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