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domenica 15 novembre 2015

Vita di quartiere, non morte di stato


Dopo ciascun evento provocato da attentatori kamikaze, disperati perdenti radicali omicidi e suicidi, milizie nichiliste, organizzazioni fondamentaliste, a tutti piacerebbe poter credere a narrazioni semplicistiche, che promettono reazioni rapide e soluzioni chiare, che però non ci sono.
Come studioso, è mio dovere smascherare la quantità di assurdità che i media veicolano con insopportabile leggerazza.
Alcuni dei miei caveat:

- la storia dell'islamismo politico ha radici profonde nel colonialismo inglese e francese e non porremo fine ad esso continuando a praticare neocolonialismo; l'esistenza di un clero islamista fascistoide e sanguinario, molto simile a come era un certo clero cristiano di una volta, non ci deve confondere; come ci spiegano gli studi di Oliver Roy, siamo al centro di drammi politici e sociali molto moderni, che sono solo camuffati sotto le vesti di antichi conflitti religiosi; non facciamoci imbrogliare e confondere da una certa propaganda fondata su stereotipi anti-immigrati;

- prima di cominciare una nuova guerra, i nostri governi dovrebbero cercare di capire e di spiegare all'opinione pubblica, come mai armi e soldi occidentali sono finiti direttamente nelle mani dei Talebani in Afghanistan e dell'ISIS in Iraq e Siria; stiamo letteralmente finanziando e armando il nostro nemico, questa è la scomoda verità che nessun media vuole affrontare;

- se si riuscisse a individuare e ad aiutare forze locali di autodifesa e di liberazione, che non mancano in nessuno dei cosiddetti "stati falliti", questo potrebbe condurre a delle disintegrazioni geopolitiche; sarebbero rischiose, ma sempre meno dello status quo; potrebbero anche contenere un germe di speranza per territori storicamente martoriati, prima dal nostro colonialismo, poi dall'autoritarismo degli stati post-coloniali che abbiamo lasciato loro in eredità;

- in ogni caso, purtroppo, una politica internazionale meno neocolonialista e meno militarista, da parte dell'Occidente, non porterà rapidamente fine alla deriva dei perdenti radicali e al loro terrorismo, come ci avverte Hans Magnus Enzensberger.

Il perdente radicale, organizzato o isolato che sia, non può essere neutralizzato da stati, apparati e politiche ancora più centralizzate e autoritarie di quelle che abbiamo negli Stati Uniti, Francia, Inghilterra, o anche in Italia.
Non morte e repressione di stato, ma una inclusiva e responsabile vita di quartiere può contenere e qualche volta forse persino prevenire queste esplosioni di violenza.
La comunità locale, coesa attorno a una religione civile, unita attorno a leader locali credibili, dotata di una forza di polizia che conosce e controlla ogni angolo del quartiere o del villaggio, può essere di aiuto a se stessa:
- stroncando sul nascere ogni forma di lavoro nero e di sfruttamento dell'immigrazione clandestina;
- impedendo la formazione di ghetti socio-culturali e di sacche di illegalità diffusa;
- offrendo una opportunità a tutti i suoi membri, salvandone, almeno qualcuno, dal destino di diventare un perdente radicale;
- creando una rete di vigilanza e solidarietà diffusa, che potrebbe rivelarsi forse persino preventiva, ma comunque di certo decisiva per contenerne gli effetti, quando una esplosione di violenza omicida e suicida occorresse.

In questa ultima parte del post, comprendo con sempre maggiore chiarezza che non bastano gli studi, per invertire la rotta sbagliata seguita sinora dall'Occidente in Afghanistan, Iraq, Somalia, Libia, Siria e Yemen.
Occorre una capacità di propugnare un cambiamento.
Urgono nuove forme di attivismo dal basso, qui, adesso.


Il simbolo con richiami alla Tour Eiffel,
ma anche a simboli pacifisti e anarchici,
che è diventato un segno popolare di solidarietà
con le vittime del terrore di Parigi - Fonte: The Guardian

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