Un discorso diverso in Toscana, per chi crede, in questa nostra madreterra, in questa fugace vita, in qualcosa di diverso

mercoledì 26 aprile 2006

Vent'anni dopo Chernobyl

Ripubblico qui un mio articolo del 2006, scritto in occasione del ventesimo anniversario del disastro di Chernobyl, sul sito di Alessandro Antichi. Con l'allora portavoce dell'opposizione nel Parlamento toscano, eravamo già impegnati in un progetto davvero ambizioso: essere sinceri, essere con i piedi per terra, essere liberi di poter dire "yes, in my backyard", contro la sindrome NIMBY di quelli che dicono sempre "not in my backyard"  (Nda, lunedì 14 marzo 2011).

Vent'anni fa, il 26 aprile 1986, l'incidente nucleare di Chernobyl, nel nord dell'Ucraina, non lontano quindi dai confini con la Bielorussia.
Non lontano, in realtà, nemmeno dalla Russia o dalla Polonia, dai paesi scandinavi o dai paesi mitteleuropei. Siamo nel cuore dell'Europa.
L'intera Europa, infatti, fu investita dalla nube radioattiva, come da una sorta di ciclone atipico. Tanto esteso quanto impercettibile. Tanto lento quanto pericoloso.
La dispersione radioattiva è stata centinaia di volte maggiore di quella della bomba di Hiroshima. La città giapponese distrutta dal bombardamento atomico nel 1945, infatti, è già tornata abitabile, al contrario di Chernobyl, il cui territorio, grande come la provincia di Firenze, oltre 3.000 kmq, resterà disabitato per migliaia di anni.
Il numero di decessi, direttamente o indirettamente attribuibili alla tragedia, è difficilmente calcolabile. La verità sta da qualche parte, fra i 4.000 morti censiti dall'ONU lo scorso settembre, e le stime agghiaccianti che parlano di decine e decine di migliaia di morti premature per cancro.
74 villaggi e 3 cittadine furono cancellate per sempre. Una popolazione grande quanto quella del Comune di Prato, quasi 200.000 abitanti, è stata deportata, senza alcuna possibilità di ritorno, come i profughi delle guerre moderne e totalitarie.
Non ci sono statistiche sugli effetti che la contaminazione ha prodotto per piante, animali ed esseri umani. Non solo sui contemporanei, i presenti nel tempo della catastrofe, ma per le generazioni future. Sterilità, malformazioni genetiche, impennata della mortalità infantile, riduzione della speranza di vita, tutto questo quanto durerà? Per sempre?
Come in una guerra combattuta da poteri totalitari, la prima vittima dell'incidente è stata la verità. Ancora oggi poco si sa di cosa l'Unione Sovietica fece dal 1986 al 1989 per tentare di limitare le conseguenze dell'incidente.
La stampa europea scrive oggi che più di mezzo milione di operai e tecnici sovietici furono mobilitati nella costruzione della gigantesca colata di cemento e materiale inerti sotto cui fu seppellito il famigerato reattore 4. Sono gli eroici likvidátoři a cui la Russia di Vladimir Putin oggi renderà omaggio. Qualcuno scrive anche che 50.000 di loro sono già morti precocemente di cancro.
Nulla, del resto, o davvero molto poco, si sa di ciò che ancora oggi avviene nella Bielorussia schiacciata sotto il tallone di Lukashenko, il burosauro, il satrapo del socialismo reale e nazionale, l'ultimo tiranno comunista ancora al potere in Europa.
Tantissimo invece sappiamo dall'Ucraina, indipendente dal 1991, una repubblica in cui le libertà e le possibilità di un dibattito pubblico sono cresciute lentamente ma ininterrottamente. Meno lentamente, purtroppo, sono cresciute le spese per fronteggiare le conseguenze del disastro di Chernobyl, che sfiorano, ogni anno, il 10% del bilancio nazionale.
Tutti concordano che attorno al sarcofago, che sta pericolosamente cedendo, dovrebbe essere costruita una vera e propria montagna artificiale. I costi per questa grande opera sono stimati in oltre 300 milioni di Euro. Il Canada ha già stanziato oltre 5 milioni, quindi ne mancano solo 295...
La Svizzera, intanto, finanzia una opera almeno altrettanto importante:  http://www.chernobyl.info, un sito web per conservare, a lungo termine - chissà, magari, almeno quanto le scorie radioattive - tutte le informazioni sul disastro.
Tutta da scrivere resta, infine, la storia di Chernobyl come limite, contro il quale si è infranta la superbia della società totalitaria sovietica, poi crollata sotto il peso di tutte le sue vergogne e menzogne nel 1989. Un limite oltrepassato il quale, anche le tendenze totalitarie presenti in tutta la modernità, compreso il nostro Occidente, compresa la Cina, compresi i tanti regimi nazislamici, sono entrate, quanto meno, in una salutare crisi. Ancora poco visibile agli occhi dei più, ma non certo meno reale.
* * *
Questo anniversario è una sfida alla cultura e alla politica di ogni società umana. Soprattutto a quelle società aperte e a quei paesi liberi, come il nostro, che vogliono conservare la libertà, prima di tutto, poi la prosperità, insieme con la bellezza della vita in un mondo abitato e abitabile.
Noi, che siamo portatori di un rinnovato spirito ""conservatore"", delle cose che contano, i nostri valori, la nostra terra, il nostro patrimonio ambientale e artistico, ci lasciamo interrogare da Chernobyl, fermamente ancorati a una etica della responsabilità verso le generazioni future, con il pragmatismo e la trasparenza che sono necessari al dibattito pubblico e alla vita politica.
Il popolo italiano nel 1987 approvò a grande maggioranza alcuni principi che, più che antinucleari, vorremmo definire nucleo-scettici:
1) non si dovevano compensare con denaro pubblico gli enti locali che accettavano nuovi impianti;
2) non doveva essere un ristretto comitato (il CIPE) a decidere dove collocare nuovi impianti;
3) la nostra vecchia industria energetica di stato, l'ENEL, non doveva investire nella gestione di centrali nucleari all'estero, cioè lontano dal controllo della nostra opinione pubblica.
E' ovvio che l'esito del referendum fu condizionato dalla grande emozione suscitata dal disastro di Chernobyl, ma non si devono sottovalutare alcune più profonde diffidenze, che avrebbero comunque fermato il nucleare in Italia.
Queste diffidenze sono continuamente alimentate dalla mancata risposta ad alcune buone domande di carattere sia ecologico, che tecnologico, che politico.
Quanti e quali sono, in Italia, i siti sicuri per la costruzione di centrali nucleari e di depositi per le scorie nucleari? Quanta terra, aria e soprattutto acqua occorrono? Quanto devono essere grandi e quanto isolati, questi siti, visto che resteranno contaminati per sempre?
Abbiamo le competenze e le intelligenze necessarie o stiamo per avventurarci in nuove forme di dipendenza dall'estero? Esistono le tecnologie per una sicurezza intrinseca credibile a così lungo termine? E' vero che per costruire una centrale occorrono 10 anni? E' vero che una centrale può funzionare 30 anni? Una volta che la centrale sarà abbandonata, potremo lasciarla invecchiare a cielo aperto come un gigantesco reperto di archeologia industriale o saremo costretti a nasconderla sotto una montagna artificiale?
Siamo sicuri che l'approvvigionamento di uranio non sarà mai soggetto a rischi geopolitici simili a quelli che soffriamo per il petrolio e per il gas? Saremo capaci di garantire la sicurezza di impianti così delicati e strategici da attacchi terroristici o da bombardamenti nemici? L'entità dell'investimento quali appetiti stuzzicherà, in un paese come il nostro che è ben lungi dall'aver sconfitto le mafie e dall'aver confinato il lavoro nero entro fasce marginali e limiti fisiologici?
Dopo aver risposto a questi interrogativi ecologici, tecnologici e politici, dobbiamo rispondere alla domanda che li sintetizza tutti: quanto ci costa tutto questo e chi lo pagherà?
Non per nulla, in un dibattito ancora eccessivamente condizionato dalla contrapposizione sterile fra i nostalgici del nucleare ""nazionale"" (cioè imposto e finanziato dallo stato) e quelle frange dell'ambientalismo che ormai si confondono con l'ecoterrorismo, il ministro Altero Matteoli chiese che fra le opposte tifoserie, tornassero una buona dose di realismo e anche un po' di umiltà.
Noi, che ci candidiamo a rimodernare la Toscana, ingrigita e soffocata sotto il Sessantennio, che desideriamo una nuova stagione di riformismo, che siamo impegnati per un nuovo spirito repubblicano che si concretizzi anche in una nuova stagione di operosità e dilingenza, dobbiamo assumerci la nostra parte di responsabilità.
Finché saremo dipendenti dal petrolio e dal gas, pagheremo costi altissimi e soffriremo crisi ricorrenti di scarsità. Dobbiamo portare avanti tutti i progetti possibili e credibili per consumare e inquinare di meno, diversificare le fonti di approvvigionamento, aumentare la disponibilità di energia pulita e rinnovabile.
Fra tutti i progetti da sottoporre a verifica, dobbiamo includere anche il nucleare di ultima generazione? Sì, se si sottopone al vaglio di un severo dibattito pubblico e al giudizio popolare. Di fronte a un progetto innovativo e convincente, non dovremmo esitare, né aspettare che ce lo imponga Roma, o tanto meno Bruxelles. Dovremmo prendere noi l'iniziativa. Guidare noi, con orgoglio e serietà, il processo. Tenere stretto nelle nostre mani il nostro futuro.

Fonte: http://www.alessandroantichi.org/content/view/164/ (acceduto lunedì 14 marzo 2011)

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