Qualcosa da ricordare e da rilanciare, in questi giorni bui di centralismo e autoritarismo: il troppo poco conosciuto scritto di Luigi Einaudi a favore dell'abolizione, sic et simpliciter, dei prefetti. Con questo antico eppure attualissimo scritto del 1944, esprimo la mia solidarietà personale, come blogger di Diverso Toscana, con la rivolta civile e nonviolenta #IoApro1501 dei ristoratori come l'amico Momi, il gestore della pizzeria fiorentina "Da Tito". Queste parole di Einaudi sono quanto ho da dire ai prefetti che continuano a essere catapultati a Firenze e in Toscana (e ai sindaci che con insostenibile leggerezza li scimmiottano). Ai politici al governo un appello: abolite subito le norme irragionevoli che impediscono di lavorare! Le pizzerie, i bar, i circoli non sono luoghi più pericolosi delle fabbriche, delle scuole, dei treni fatiscenti su cui ci mandate ogni mattina a lavorare o a studiare, dei supermercati e dei centri commerciali. Il conflitto tra salute e lavoro c'è, è drammatico, è terribile. Non può essere risolto solo in termini proibizionistici. Cerchiamo tutti di tornare al buon senso.
--- Mauro Vaiani, blogger di Diverso Toscana
Via i prefetti! (Luigi Einaudi, 1944)
Proporre, in Italia ed in qualche altro paese di Europa, di abolire
il « prefetto » sembra stravaganza degna di manicomio. Istituzione
veneranda, venuta a noi dalla notte dei tempi, il prefetto è quasi
sinonimo di governo e, lui scomparso, sembra non esistere più nulla. Chi
comanda e chi esegue fuor dalla capitale? Come opera l'amministrazione
pubblica?
In verità, il prefetto è una lue che fu inoculata nel corpo
politico italiano da Napoleone. Gli antichi governi erano, prima della
rivoluzione francese, assoluti solo di nome, e di fatto vincolati d'ogni
parte, dai senati e dalle camere dei conti o magistrati camerali,
gelosissimi del loro potere di rifiutare la registrazione degli editti
che, se non registrati, non contavano nulla, dai corpi locali
privilegiati, auto-eletti per cooptazione dei membri in carica, dai
patti antichi di infeudazione, di dedizione e di annessione, dalle
consuetudini immemorabili.
Gli stati italiani governavano entro i limiti posti dalle « libertà
» locali, territoriali e professionali. Spesso « le libertà »
municipali e regionali erano « privilegi » di ceti, di nobili, di
corporazioni artigiane ed erano dannose all'universale. Nella furia di
strappare i privilegi, la rivoluzione francese distrusse, continuando
l'opera iniziata dai Borboni, le libertà locali; e Napoleone, dittatore
all'interno, amante dell'ordine, sospettoso, come tutti i tiranni, di
ogni forza indipendente, spirituale o temporale, perfezionò l'opera.
I governi restaurati trovarono comodo di non restaurare, se non di
nome,
gli antichi corpi limitatori e conservarono il prefetto napoleonico.
L'Italia
nuova, preoccupata di rinsaldare le membra disiecta degli antichi
ex-stati
in un corpo unico, immaginò che il federalismo fosse il nemico ed
estese il sistema prefettizio anche a quelle parti d'ltalia, come le
province ex-austriache, nelle quali la lue erasi infiltrata con
manifestazioni attenuate. Si credette di instaurare libertà e democrazia
e si foggiò lo strumento della dittatura.
Democrazia e prefetto repugnano profondamente l'una all'altro. Né
in ltalia, né in Francia, né in Spagna, né in Prussia si ebbe mai e non
si avrà mai democrazia, finché esisterà il tipo di governo accentrato,
del quale è simbolo il prefetto. Coloro i quali parlano di democrazia e
di costituente e di volontà popolare e di autodecisione e non si
accorgono del prefetto, non sanno quel che si dicono. Elezioni, libertà
di scelta dei rappresentanti, camere, parlamenti, costituenti, ministri
responsabili sono una lugubre farsa nei paesi a governo accentrato del
tipo napoleonico.
Gli uomini di stato anglo-sassoni, i quali invitano i popoli
europei a
scegliersi la forma di governo da essi preferita, trasportano
inconsciamente
parole e pensieri propri dei loro paesi a paesi nei quali le
medesime parole
hanno un significato del tutto diverso. Forse i soli europei del
continente,
i quali sentendo quelle parole le intendono nel loro significato
vero sono,
insieme con gli scandinavi, gli svizzeri; e questi non hanno nulla
da imparare,
perché quelle parole sentono profondamente da sette secoli. Essi
sanno che la democrazia comincia dal comune, che è cosa dei cittadini, i
quali non solo eleggono i loro consiglieri e sindaci o presidenti o
borgomastri, ma da sé, senza intervento e tutela e comando di gente
posta fuori del comune od a questo sovrapposta, se lo amministrano, se
lo mandano in malora o lo fanno prosperare.
L'auto-governo continua nel cantone, il quale è un vero stato, il quale
da sé si fa le sue leggi, se le vota nel suo parlamento e le applica
per mezzo dei propri consiglieri di stato, senza uopo di ottenere approvazioni
da Berna; e Berna, ossia il governo federale, a sua volta, per le cose
di sua competenza, ha un parlamento per deliberare le leggi sue proprie
ed un consiglio federale per applicarle ed amministrarle. E tutti questi
consessi ed i 25 cantoni e mezzi cantoni e la confederazione hanno così numerosissimi
legislatori e centinaia di ministri, grossi e piccoli, tutti eletti, ognuno
dei quali attende alle cose proprie, senza vedersi mai tra i piedi il prefetto,
ossia la longa manus del ministro o governo più grosso, il quale
insegni od ordini il modo di sbrigare le faccende proprie dei ministri
più piccoli.
Così pure si usa governare in Inghilterra, con
altre formule di parrocchie, borghi, città, contee, regni e principati;
così si fa negli Stati Uniti, nelle federazioni canadese, sudafricana,
australiana e nella Nuova Zelanda. Nei paesi dove la democrazia non è una
vana parola, la gente sbriga da sé le proprie faccende locali (che
negli Stati Uniti si dicono anche statali), senza attendere il la od il
permesso dal governo centrale. Così si forma una classe politica
numerosa, scelta per via di vagli ripetuti. Non è certo che il vaglio
funzioni sempre a perfezione; ma prima di arrivare ad essere consigliere
federale o nazionale in Svizzera, o di essere senatore o rappresentante
nel congresso nord americano, bisogna essersi fatto conoscere per cariche
coperte nei cantoni o negli stati; ed essersi guadagnato una qualche fama
di esperto ed onesto amministratore. La classe politica non si forma da
sé né è creata dal fiat di una elezione generale.
Ma si costituisce lentamente dal basso; per scelta fatta da gente che conosce
personalmente le persone alle quali delega la amministrazione delle cose
locali piccole; e via via quelle delle cose nazionali od inter-statali
più grosse.
La classe politica non si forma tuttavia se l'eletto ad
amministrare le cose municipali o provinciali o regionali non e
pienamente responsabile per l'opera propria. Se qualcuno ha il potere di
dare a lui ordini o di annullare il suo operato, l'eletto non è
responsabile e non impara ad amministrare. Impara ad ubbidire,
intrigare, a raccomandare, a cercare appoggi. Dove non esiste il governo
di se stessi e delle cose proprie, in che consiste la democrazia?
Finché esisterà in Italia il prefetto, la deliberazione e
l'attuazione non spetteranno al consiglio municipale ed al sindaco, al
consiglio provinciale ed al presidente; ma sempre e soltanto al governo
centrale, a Roma; o, per parlar più concretamente, al ministro
dell'interno. Costui è il vero padrone della vita amministrativa e
politica dell'intero stato. Attraverso i suoi organi distaccati, le
prefetture, il governo centrale approva o non approva i bilanci comunali
e provinciali, ordina l'iscrizione di spese di cui i cittadini
farebbero a meno, cancella altre spese, ritarda l'approvazione ed
intralcia il funzionamento dei corpi locali. Chi governa localmente di
fatto non è né il sindaco né il consiglio comunale o provinciale; ma il
segretario municipale o provinciale. Non a caso egli è stato oramai
attruppato tra i funzionari statali. Parve un sopruso della dittatura ed
era la logica necessaria deduzione del sistema centralistico.
Chi, se non un funzionario statale, può interpretare ed eseguire
le leggi, i regolamenti, le circolari, i moduli i quali quotidianamente,
attraverso le prefetture, arrivano a fasci da Roma per ordinare
il modo di governare ogni più piccola faccenda locale? Se talun
cittadino si informa del modo di sbrigare una pratica dipendente da una
legge nuova, la risposta è : non sono ancora arrivate le istruzioni,
non è ancora
compilato il regolamento; lo si aspetta di giorno in giorno.
A nessuno viene in mente del ministero, l' idea semplice che l'eletto
locale ha il diritto e il dovere di interpretare lui la legge, salvo a
rispondere dinnanzi agli elettori della interpretazione data? Che cosa
fu e che cosa tornerà ad
essere l'eletto del popolo in uno stato burocratico accentrato?
Non un legislatore, non un amministratore; ma un tale, il cui ufficio principale è essere
bene introdotto nei capoluoghi di provincia presso prefetti,
consiglieri e segretari di prefettura, provveditori agli studi, intendenti
di finanza, ed a Roma, presso i ministri, sotto-segretari di stato e, meglio
e più,
perché di fatto più potenti, presso direttori generali, capidivisione,
segretari, vice-segretari ed uscieri dei ministeri.
Il malvezzo
di non muovere la « pratica » senza una spinta, una raccomandazione
non è recente né ha origine dal fascismo. È antico
ed è proprio del sistema. Come quel ministro francese, guardando
l'orologio, diceva: a quest'ora, nella terza classe di tutti
i licei di Francia, i professori spiegano la tal pagina di Cicerone; così si
può dire di tutti gli ordini di scuole italiane. Pubbliche o private,
elementari o medie od universitarie, tutto dipende da Roma:
ordinamento, orari, tasse, nomine degli insegnanti, degli impiegati di
segreteria, dei portieri e dei bidelli, ammissioni degli studenti, libri
di testo, ordine degli esami, materie insegnate.
I fascisti concessero
per scherno l'autonomia alle università; ma era logico che nel sistema
accentrato le università fossero,
come subito ridiventarono, una branca ordinaria dell'amministrazione
pubblica; ed era logico che prima del 1922 i deputati elevassero querele
contro quelle che essi imprudentemente chiamarono le camorre dei professori
di università,
i quali erano riusciti, in mezzo secolo di sforzi perseveranti
e di costumi anti-accentratori a poco a poco originati dal loro spirito
di corpo, a togliere ai ministri ogni potere di scegliere e di trasferire
gli insegnanti universitari e quindi ogni possibilità ai deputati
di raccomandare e promuovere intriganti politici a cattedre.
Agli occhi
di un deputato uscito dal suffragio universale ed investito
di una frazione della sovranità popolare,
ogni resistenza di corpi autonomi, di enti locali, di sindaci
decisi a valere la volontà dei loro amministrati appariva camorra,
o sopruso, privilegio. La tirannia del centro, la onnipotenza del ministero,
attraverso ai prefetti, si converte nella tirannia degli eletti al parlamento.
Essi sanno di essere i ministri del domani, sanno che chi di loro diventerà ministro
dell'interno, disporrà della leva di comando del paese; sanno che
nessun presidente del consiglio può rinunciare ad essere ministro
dell'interno se non vuol correre il pericolo di vedere « farsi » le
elezioni contro lui dal collega al quale egli abbia avuto la
dabbenaggine di abbandonare quel ministero, il quale dispone delle prefetture,
delle questure e dei carabinieri; il quale comanda a centinaia di migliaia
di funzionari piccoli e grossi, ed attraverso concessioni di sussidi, autorizzazioni
di spese, favori di ogni specie adesca e minaccia sindaci,
consiglieri, presidenti di opere pie e di enti morali. A volta a volta
servo e tiranno dei funzionari che egli ha contribuito a far nominare con
le sue raccomandazioni e dalla cui condiscendenza dipende l'esito delle
pratiche dei suoi elettori, il deputato diventa un galoppino, il cui tempo
più che dai lavori
parlamentari è assorbito dalle corse per i ministeri e dallo scrivere
lettere di raccomandazione per il sollecito disbrigo delle
pratiche dei suoi elettori.
Perciò il delenda Carthago della democrazia liberale è : Via il
prefetto! Via con tutti i suoi uffici e le sue dipendenze e le sue
ramificazioni! Nulla deve più essere lasciato in piedi di questa
macchina centralizzata; nemmeno lo stambugio del portiere. Se lasciamo
sopravvivere il portiere, presto accanto a lui sorgerà una fungaia di
baracche e di capanne che si trasformeranno nel vecchio aduggiante
palazzo del governo. Il prefetto napoleonico se ne deve andare, con le
radici, il tronco, i rami e le fronde.
Per fortuna, di fatto oggi in Italia l'amministrazione
centralizzata è scomparsa. Ha dimostrato di essere il nulla; uno
strumento privo di vita propria, del quale il primo avventuriero
capitato a buon tiro poteva impadronirsi per manovrarlo a suo
piacimento. Non accadrà alcun male, se non ricostruiremo la macchina
oramai guasta e marcia. L'unità del paese non è data dai prefetti e dai
provveditori agli studi e dagli intendenti di finanza e dai segretari
comunali e dalle circolari ed istruzioni ed autorizzazioni romane.
L'unità del paese è fatta dagli italiani. Dagli italiani, i quali
imparino, a proprie spese, commettendo spropositi, a governarsi da sé.
La vera costituente non si fa in una elezione plebiscitaria, a fin di
guerra. Così si creano o si ricostituiscono le tirannie, siano esse di
dittatori o di comitati di partiti. Chi vuole affidare il paese a
qualche altro saltimbanco, lasci sopravvivere la macchina accentrata e
faccia da questa e dai comitati eleggere una costituente.
Chi vuole che gli italiani governino se stessi, faccia invece subito eleggere
i consigli municipali, unico corpo rimasto in vita, almeno
come aspirazione profondamente sentita da tutti i cittadini; e dia agli
eletti il potere di amministrare liberamente; di far bene e farsi rinnovare
il mandato, di far male e farsi lapidare. Non si tema che i malversatori
del denaro pubblico non paghino il fio, quando non possano scaricare su
altri, sulla autorità tutoria, sul governo la colpa delle proprie
malefatte. La classe politica si forma così : col provare e riprovare,
attraverso a fallimenti ed a successi. Sia che si conservi la provincia;
sia che invece la si abolisca, perché ente artificioso, antistorico
ed anti-economico e la si costituisca da una parte con il distretto o collegio
o vicinanza, unità più piccola, raggruppata attorno alla
cittadina, al grosso borgo di mercato, dove convengono naturalmente per
i loro interessi ed affari gli abitanti dei comuni dei dintorni, e dall'altra
con la grande regione storica: Piemonte, Liguria, Lombardia, ecc. ; sempre,
alla pari del comune, il collegio e la regione dovranno amministrarsi da
sé, formarsi i propri governanti elettivi, liberi di gestire
le faccende proprie del comune, del collegio e della provincia, liberi
di scegliere i propri funzionari e dipendenti, nel modo e con le garanzie
che essi medesimi, legislatori sovrani nel loro campo, vorranno stabilire.
Si potrà discutere sui compiti da attribuire a questo o
quell'altro ente sovrano; ed adopero a bella posta la parola sovranità e
non autonomia, ad indicare che non solo nel campo internazionale, con
la creazione di vincoli federativi, ma anche nel campo nazionale, con la
creazione di corpi locali vivi di vita propria originaria non derivata
dall'alto, urge distruggere l'idea funesta della sovranità assoluta
dello stato. Non temasi dalla distruzione alcun danno per l'unità
nazionale. L'accentramento napoleonico ha fatto le sue prove e queste
sono state negative: una burocrazia pronta ad ubbidire ad ogni padrone,
non radicata nel luogo, indifferente alle sorti degli amministrati; un
ceto politico oggetto di dispregio, abbassato a cursore di anticamere
prefettizie e ministeriali, prono a votare in favore di qualunque
governo, se il voto poteva giovare ad accaparrare il favore della
burocrazia poliziesca ed a premere sulle autorità locali nel giorno
delle elezioni generali; una polizia, non collegata, come dovrebbe,
esclusivamente con la magistratura inquirente e giudicante e con i
carabinieri, ma divenuta strumento di inquisizione politica e di
giustizia « economica » , ossia arbitraria.
L'arbitrio poliziesco erasi affievolito all'inizio del secolo; ma
lo strumento
era pronto; e, come già con Napoleone, ricominciarono a giungere
al dittatore i rapporti quotidiani della polizia sugli atti e sui
propositi di ogni cittadino sospetto; e si potranno di nuovo comporre,
con quei fogli, se non li hanno bruciati prima, volumi di piccola e di
grande storia di interesse appassionante. E quello strumento, pur
guasto, è pronto, se non lo faremo diventare mero organo della giustizia
per la prevenzione dei reati e la scoperta dei loro autori, a servire
nuovi tiranni e nuovi comitati di salute pubblica.
Che cosa ha dato all'unità d'Italia quella armatura dello stato
di polizia, preesistente, ricordiamolo bene, al 1922? Nulla. Nel momento
del pericolo è svanita e sono rimasti i cittadini inermi e soli. Oggi
essi si attruppano in bande di amici, di conoscenti, di borghigiani; e
li chiamano partigiani. È lo stato il quale si rifà spontaneamente.
Lasciamolo riformarsi dal basso, come è sua natura. Riconosciamo che
nessun vincolo dura, nessuna unità è salda, se prima gli uomini i quali
si conoscono ad uno ad uno non hanno costituito il comune; e di qui,
risalendo di grado in grado, sino allo stato. La distruzione della
sovrastruttura napoleonica, che gli italiani non hanno amato mai, offre
l'occasione unica di ricostruire lo stato partendo dalle unità che tutti
conosciamo ed amiamo; e sono la famiglia, il comune, la vicinanza e la
regione. Così possederemo finalmente uno stato vero e vivente.
(« L'Italia e il secondo risorgimento », supplemento alla Gazzetta
ticinese, 17 Iuglio 1944, a firma Junius.)
Fonte: http://www.polyarchy.org/basta/documenti/einaudi.1944.html (ultimo accesso 22 gennaio 2021)