Un discorso diverso in Toscana, per chi crede, in questa nostra madreterra, in questa fugace vita, in qualcosa di diverso
domenica 28 ottobre 2018
Il potere diabolico della parola "naturale"
Si discuteva oggi in famiglia dell'ennesimo cambio di fuso orario.
La Toscana viene di nuovo portata nell'ora cosiddetta "solare" o "invernale", nonostante sia ormai chiaro da molti anni che il fuso orario della cosiddetta ora "legale" ed "estiva", sia molto più adatto alle esigenze della vita toscana di oggi.
Mentre si parlava di questa assurdità del cambio di fuso orario, due volte l'anno, in tanti paesi europei, alcuni hanno definito l'ora invernale "naturale".
Naturale?
Non c'è nulla di naturale nell'ora invernale. L'Italia la adottò alla fine dell'800, per l'esattezza nel 1893.
Il fatto è che la parola "naturale" ha un suo potere diabolico.
Veniamo educati sin da piccoli a usarla per sottolineare la nostra obbedienza a un ordine dato, alle strutture degli attuali regimi che ci dominano.
Si deve crescere nell'ignoranza della storia e dei continui mutamenti istituzionali che sono alle nostre spalle, perché consideriamo tutto ciò che ci sovrasta come "naturale".
Naturale sarebbe quindi anche l'ora "invernale", ma non è vero. Essa è convenzionale come ogni altra ora che abbiamo usato in passato.
Naturale sarebbe lo stato italiano, nonostante i suoi continui e ripetuti fallimenti, anzi proprio per quelli! Veniamo educati a non sapere nulla di ciò che c'era prima dello stato italiano, perché, appena ne riprendessimo coscienza, ci ribelleremmo e lo scioglieremmo.
Naturale sarebbe ciò che la morale comune ci dice della famiglia, della nascita, della morte. Proprio nella nostra vita più personale e più intima, però, non è poi così difficile rendersi conto che troppe cose che ci vengono propinate come naturali, sono solo funzionali al dominio di pochi maschi, vecchi, bianchi, sani, ricchi. Mentre sono assolutamente contrarie alle esigenze della maggioranza della popolazione, composta da donne, giovani, bambini, immigrati, disabili, persone lesbiche, gay e trans, senza dimenticare ovviamente i poveri, che sono sempre di più.
Naturale sarebbe il mercato, che invece non è più una istituzione di ragionevole concorrenza fra imprenditori, almeno da quando il pensiero liberale del Settecento è stato minato dalla sua incapacità di comprendere i disastri della Rivoluzione industriale.
Naturale sarebbe il capitalismo.
Naturale sarebbe lo stato.
Naturale sarebbe il predominio di chi fa parte di caste come il clero, o la alta burocrazia, o gli alti gradi della vita militare.
Naturale sarebbe la schiavitù dei lavoratori precari e sottopagati.
Naturale sarebbe una concentrazione di proprietà e di ricchezze, che è invece assolutamente incompatibile con la tutela dei beni comuni, dell'ambiente, dell'uguaglianza sociale.
Naturale sarebbe la creazione e la distruzione continua di grandi ricchezze finanziarie nei mercati globali totalmente virtualizzati.
Naturale sarebbe, ovviamente, come sempre, la guerra - un classico sotto ogni regime, un "sempre verde" (evergreen).
Naturale sarebbe, addirittura, la distruzione della natura stessa! E qui siamo al trionfo di quei poteri orwelliani che chiamano "verità" le più grandi menzogne.
Praticamente tutto ciò che ci viene venduto, sin da piccoli, come "naturale", è assolutamente artificiale, concepito per farci amare il nostro asservimento a uno status quo assai discutibile e, con il passare del tempo, sempre più insopportabile.
Questo uso della parola "naturale" come strumento diabolico di dominio di pochi su molti, ha precise origini, connesse con la formazione degli stati moderni europei, quelli che hanno conquistato il mondo e, tutt'ora, lo mettono in grande pericolo con inquinamento e guerra. Lo aveva intuito, fra i primi e fra i pochi, un grandissimo pensatore e moralista toscano, Enrico Chiavacci.
Grazie a complessi processi storici - e forse grazie soprattutto alla Provvidenza - è però iniziato il declino dei colonialisti e degli attuali padroni del mondo. Chi scrive se ne è occupato nei suoi studi di dottorato (Disintegration as Hope).
Nel XXI secolo, quindi, può e deve essere portata in ogni casa, in ogni angolo del mondo, la buona notizia che la nostra ignoranza, il nostro avvelenamento, il nostro asservimento alle potenze di questo mondo non sono affatto "naturali".
Sì, avete capito bene: ciò che è "naturale", nel mondo umano, per lo più non ha senso, o è largamente sopravvalutato, o è altamente discrezionale, o comunque non è quasi mai quello che il potere vorrebbe convincerci che fosse.
C'è qualcosa di più e di diverso, per ogni individuo, nel nostro comune e breve tragitto fra la nascita e la morte, che obbedire a ciò che dall'alto e da altrove è stato definito come "naturale".
E' dovere di ciascuna persona umana scoprirlo e prenderselo, per il bene suo e delle generazioni future.
mercoledì 24 ottobre 2018
L'unico modo dignitoso di ricordare la "Inutile Strage"
Il centenario della fine della #InutileStrage si avvicina.
Insieme a pochi altri, abbiamo resistito al dilagare delle celebrazioni patriottarde, alle feste inopportune, alle celebrazioni renziane e salviniane che hanno tentato di "riabilitare" questa grande tragedia.
Non dimentichiamo mai quanti infami e quante infamie ci sono state in quella guerra.
Per coloro che abitano vicino a Figline Valdarno, un invito a un momento di riflessione davvero importante, sabato 27 ottobre 2018, ore 17.3, presso la libreria "La Parola", Corso Giuseppe Mazzini 26, Figline Valdarno, Toscana.
Sergio Staderini presenta la raccolta delle lettere di suo nonno Lorenzo.
Venite!
sabato 20 ottobre 2018
Lavoro di cittadinanza, questo darebbe un governo decentralista
C'è inquietudine, non solo interesse, nella gente, quando si sente parlare di reddito di cittadinanza. I poveri sono sempre di più e si rischia di accendere negli umili speranze che potrebbero andare deluse. Le classi medie impoverite non sono contrarie, ma c'è anche chi soffia sul fuoco dell'invidia sociale e della paura che si finisca per premiare "chi non si è impegnato abbastanza".
Fra i cittadini socialmente più attivi e politicamente più consapevoli, si va da chi teme una nuova ondata di malcostume assistenzialista, a chi dubita che gli attuali governanti abbiano le competenze per gestire un tale strumento, a chi non crede alla tenuta dei conti pubblici.
C'è un pizzico di speranza, ma anche molto timore.
Che fare, quindi?
Cosa farebbe un governo decentralista, sostenuto da autonomisti toscani, da Autodeterminatzione Sardegna, dal Patto per l'Autonomia del Friuli-Venezia Giulia, da Siciliani Liberi e da tanti altri movimenti decentralisti?
Secondo questo blog, noi decentralisti lotteremmo per una drastica devoluzione dell'intera materia ai territori.
Chiunque abbia vissuto in prima persona una esperienza di emancipazione dalla povertà, sa che essa parte solo con l'aiuto di chi ti è più vicino (un parente, un collega, un vicino di casa, un volontario di una parrocchia o di un centro sociale). Il primo (e in molti casi unico) interlocutore istituzionale è il comune, con i suoi servizi sociali.
Per quanto inefficiente possa essere un comune, questa istituzione non può sottrarsi, perché è ad essa, alla fine, che le leggi della Repubblica affidano il compito di occuparsi degli indigenti.
Noi decentralisti lottiamo quindi perché i comuni - ma nei comuni più grandi addirittura il quartiere, il rione, la frazione - abbiano politiche serie di emancipazione dalla povertà, orientate al riscatto sociale, all'aiuto alle persone e alle famiglie affinché si rialzino e si rendano indipendenti.
Dare un alloggio economico, o un sostegno finanziario, o altre forme di aiuto personalizzato, può e deve essere deciso al livello più basso possibile, da politici responsabili (con il supporto dei tecnici dell'assistenza sociale ma non lasciando a loro decisioni che sono eminentemente politiche).
Per questo tutte le risorse di cui si parla attualmente a livello nazionale, una decina di miliardi di Euro, dovrebbero essere lasciate interamente ai comuni.
Ai comuni dovrebbe andare una percentuale maggiore di IRPEF, con elementi di perequazione fra zone più ricche e più povere del paese.
Ai comuni, inoltre, vorremmo dare una maggiore libertà organizzativa e finanziaria nella gestione delle loro risorse, iniziando a disboscare la giungla di leggi che oggi paralizzano anche le amministrazioni più virtuose.
Facciamo una proposta se possibile ancora più radicale: tutti i sussidi di disoccupazione dovrebbero essere distribuiti e controllati dai servizi sociali dei comuni, secondo regole universali, affinché essi siano coordinati (senza sprechi e lottando contro eventuali abusi) con le altre politiche sociali di emancipazione della persona umana dallo stato di bisogno.
Ai comuni stessi, infine, lasceremmo la possibilità di chiedere qualcosa in cambio a tutti coloro che sono in difficoltà: il lavoro di cittadinanza.
A chi è in età lavorativa e non ha problemi di salute gravi, i comuni, in cambio dell'aiuto dato, potrebbero chiedere di fare, almeno due o tre mattine la settimana, un po' di lavoro socialmente utile.
Lavoro, quindi, e non reddito di cittadinanza, perché tutti possano, anche nei momenti più difficili, sentirsi partecipi e utili.
Per quanto riguarda le politiche più complesse, quelle per far incontrare offerta e domanda di lavoro, dalla formazione professionale all'organizzazione dei cosiddetti centri per l'impiego, noi devolveremmo l'intera materia alle regioni e e alle province autonome, le quali hanno la possibilità di concentrarsi su ciò che è veramente utile alla loro gente e al loro territorio.
L'unico provvedimento che, per il momento, lasceremmo a livello centrale, è quello del doveroso aumento della pensione minima. Agli anziani questo lo dobbiamo, senza se e senza ma. Per poterlo fare noi non ci sottrarremmo all'adozione di valute locali, perché gran parte di ciò di cui gli anziani hanno bisogno si trova nel loro quartiere e nel loro paesino, per cui non si dovrebbe aver paura di dare loro una integrazione al reddito in unità di conto che possano circolare solo in un ambito territoriale ristretto (si veda in proposito quanto abbiamo scritto a proposito degli studi di Stefano Sylos Labini e di Francesco Gesualdi).
A coloro che, a questo punto, ci ripetessero la stanca litania sugli "sprechi" delle regioni e degli enti locali, un cortese saluto e un invito a studiare un pochino di più. In quanto a sprechi, se proprio si vuole cambiare qualcosa, si cominci a guardare nelle amministrazioni centrali, non certo in quelle locali, che non controllano più del 13% della spesa pubblica italiana.
lunedì 1 ottobre 2018
Bilancio italiano 2019 - Cosa farebbe un governo decentralista
I numeri di una repubblica gigantesca come quella italiana fanno tremare i polsi.
Tuttavia anche noi, persone delle periferie europee, impegnate contro la concentrazione di ricchezze e di potere, in lotta per una nuova stagione di decentralismo e confederalismo dal basso, ci sentiamo di scrivere qualcosa, con umiltà.
Noi siamo distinti e distanti da questo governo Conte-Di Maio-Salvini-Tria, senza ovviamente rimpiangere quelli di prima. Non ne condividiamo molti contenuti e tanto meno i toni. Ne temiamo il neocentralismo, soprattutto, e la presunzione di affrontare il bilancio italiano senza coordinarsi con le regioni e le autonomie locali.
Se fossimo al loro posto, prima di ogni cosa, avremmo già messo in campo un grande programma per togliere il debito pubblico dal "mercato". Non possiamo e non dobbiamo più vendere all'asta tutto il nostro debito pubblico, semplicemente perché non possiamo più permetterci di pagare così tanti interessi. L'esperimento da apprendisti stregoni del "neoliberalismo all'italiana", iniziato nel 1981 dall’allora ministro del Tesoro, Beniamino Andreatta, e dal governatore di Banca d'Italia, Carlo Azeglio Ciampi, ha mostrato chiaramente i suoi limiti e occorre porvi fine al più presto, senza se e senza ma.
Ci vogliono strumenti di congelamento e di alleggerimento del debito pubblico italiano. Studiosi esperti (Francesco Gesualdi a Stefano Sylos Labini, per citarne solo due che conosciamo bene e che stimiamo) prospettano forme di "infruttini", "minibot", "certificati di credito fiscale" e varie forme di moneta fiscale, da emettere in stretta collaborazione con le autorità locali. Vanno studiate e vanno sperimentate. Potrebbero alleggerire, anche solo un po', il peso degli 80 miliardi l'anno di interessi sui debiti pubblici che ci dissanguano.
Oltre alla sperimentazione di questi strumenti para-monetari, dovrebbe anche continuare la revisione profonda della struttura della spesa centrale e centralista, a cominciare dagli oltre 15 miliardi di incentivi dannosi all'ambiente.
Insomma, un governo decentralista non spingerebbe affatto sulla leva del deficit, per aumentare gli investimenti a protezione dell'ambiente o per pagare pensioni più dignitose.
Ci fermeremmo sulla soglia di quel 2,1% lasciatoci in eredità dai precedenti governi e forse potremmo fare persino meglio.
Sia chiaro che non siamo fanatici dell'austerità, né del pareggio di bilancio a tutti i costi, ma quella per cambiare lo status quo nella Eurozona sarà una partita lunghissima e delicata e non crediamo sia saggio iniziarla sbattendo i pugni sul tavolo.
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