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sabato 25 marzo 2017

Ripensamento europeo



In un ideale dialogo a distanza con quello che l'amico Walter Baier ha scritto su Il Manifesto il 22 marzo scorso, sulla necessità di fare dell'Europa uno dei nostri beni comuni, anche su questo blog vogliamo dire qualcosa sulla necessità di un profondo ripensamento europeo.
Non abbiamo facili ricette da suggerire, ma alcune domande da porre, a margine della celebrazione del 60° anniversario dei trattati di Roma del 1957, che dettero inizio a quel potente processo di integrazione europea, di cui oggi le istituzioni della Unione Europea e quelle di governo comune della Eurozona sono il risultato.
Teniamoci intanto lontani dal diluvio di parole retoriche - e fuorvianti, quando non false - su quanta pace e libertà ci avrebbe garantito il processo di integrazione europea. Chi ha cercato di studiare criticamente (come ha tentato di fare chi scrive, con la sua ricerca "Disintegration as Hope") i processi di integrazione geopolitica, compresi quelli posti in essere nel mondo post-colonialista e nel dopo 1989, come appunto la Unione Europea, ne conosce bene i limiti, gli squilibri, le ingiustizie interne, le violenze esportate all'esterno.
Restiamo piuttosto con i piedi ben piantati in un mondo in cui i più possono capire quanto sia fondamentalmente iniquo lo scambio fra più "borse Erasmus" (o anche più fondi strutturali europei, o più posti di lavoro a Berlino o a Bruxellles) e la distruzione dell'istruzione pubblica (o della finanza locale, o delle imprese artigiane locali) nelle regioni meno "competitive" della Unione Europea.
Al primo posto noi mettiamo sempre le persone, specie le più umili, quelle che per vivere devono vendere il proprio lavoro, come ricorda giustamente Walter Baier.
L'Europa unita deve essere ripensata innanzitutto per loro.
Noi crediamo, però, che le persone, oltre a vedersi garantiti lavoro e diritti, vogliano - e forse debbano - partecipare all'autogoverno del proprio territorio, attraverso istituzioni democratiche locali in cui ciascun cittadino senta di poter fare la differenza.
Per consentire questa radicale emancipazione, il tema del rafforzamento ed eventualmente la moltiplicazione di forti autogoverni locali, che abbiano, per dirla con il candore dell'anziano leader socialista indipendentista scozzese Jim Sillars, un potere sfrenato di cambiare le cose, ci sembra ineludibile.
Nelle periferie d'Europa è davvero difficile continuare a subire direttive europee come la Bolkenstein, che costringono le comunità locali a mettere in discussione l'assetto dei propri servizi pubblici, la gestione dei beni comuni, il confezionamento dei cibi, il futuro delle imprese locali. 
Ci sembra urgente discutere sulla riduzione piuttosto che l'aumento dei poteri europei; sulla sussidiarietà verso istituzioni di autogoverno locale piuttosto che la concentrazione di ulteriori funzioni in organi di governo continentale.
Proposte di un "New Deal" europeo, come quelle lanciate dalla sinistra europa con Alexis Tsipras o dalla rete Diem25 di Yanis Varoufakis, sono suggestive, ma corrono forse il rischio di essere subalterne ai progetti federalisti di costruzione di un superstato europeo.
Perché solo una Europa trasformata in una federazione - in un vero stato in tutto fuorché nel nome - potrebbe davvero fare cose come mutualizzare il debito, erogare un sussidio di disoccupazione europeo, o avviare politiche sociali capaci di trattare allo stesso modo tutti i suoi cittadini, dall'Olanda alla Grecia, dal Portogallo all'Austria.
E' davvero desiderabile per i cittadini e per le loro comunità locali - lo chiediamo specialmente a quelli e quelle che si sentono parte di una cultura democratica, socialista, progressista - intraprendere la strada della trasformazione della Unione, o della Eurozona, o di parte di essa in uno stato europeo?
Ne dubitiamo fortemente, perché una grande democrazia continentale finirebbe per sbarrare alla stragrande maggioranza dei suoi cittadini esattamente quella radicale emancipazione di cui parlavamo poco sopra, emancipazione che è invece possibile in forti democrazie locali, dove intere cittadinanze possono sentirsi maggiormente partecipi e responsabili del proprio destino individuale e comunitario.
Non è forse vero, tanto per cominciare, che con il crescere delle dimensioni geopolitiche una grande repubblica finisce per essere una mera democrazia elettorale, dominata da chi domina i grandi media globali?
Anche nei rari casi in cui una grande democrazia mediatica continentale sia governata da una elite progressista, come per esempio fu quella guidata dai coniugi Roosesvelt, essa comunque rischierebbe di imporre, per esempio, iniziative e opere che calerebbero dall'alto sulla testa delle comunità locali, ovviamente in nome del lavoro e della giustizia sociale. Non si può facilmente sfuggire, anche in un mondo dove pure la popolazione ha maturato sempre più una coscienza ambientalista, alla realtà che tanto più potere e ricchezza sono concentrati, tanto più le opere imposte sui territori sarebbero faraoniche e, in definitiva, distruttive dei beni ambientali e delle reti territoriali esistenti.
Possiamo, inoltre, sorvolare sul fatto che le elite al potere nella attuale Unione Europea sono state fra le principali promotrici di trattati ingiusti come il TTIP, il TTP, il CETA? Dovremmo piuttosto prendere finalmente atto che non c'è giustizia nel c.d. "libero scambio" fra territori dove standard ambientali, diritti civili e sociali, salari e pensioni, non sono nemmeno lontanamente paragonabili.
E' poi un caso che ogni volta che si parla di rilancio e avanzamento del processo di integrazione europea, le elite dominanti finiscano sempre per inserire in ogni discorso europeista la prospettiva di un esercito europeo? E' davvero pensabile che una volta costituito un tale esercito continentale, questo non divenga, come già accade in altri grandi stati continentali, un "military-industrial complex", con una propria agenda militarista, magari in nome dell' "interventismo umanitario"? Ci pare necessario ascoltare, a questo proposito, la sfida che ci viene lanciata da piattaforme come Eurostop, contro eserciti internazionali permanenti, contro l'esercito europeo, contro la stessa NATO.
Infine, chiederemmo una maggiore riflessione su quanto sta accadendo vistosamente in Scozia, Catalogna, Corsica, ma anche, sia pure più silenziosamente, in molti altri territori europei dove esistono forti istituzioni locali, comprese le province olandesi, gli stati tedeschi, le regioni italiane.
Gli ideali europei sono davvero messi in pericolo da questi "localismi"? Ci pare piuttosto possibile, al contrario, che proprio la moltiplicazione di movimenti decentralisti nelle periferie d'Europa, gramscianamente capaci di inclusione sociale e rappresentanza politica, possa rappresentare un antidoto più forte di altri al veleno sparso dai nuovi movimenti populisti, anti-europeisti, neo-nazionalisti.


Firenze, 25 marzo 2017 (Capodanno fiorentino e pisano)
 
(Mauro Vaiani)

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