Ripubblichiamo su Diverso Toscana questo commento sull'attacco al bar Noar di Tel Aviv, del 2009. Lo facciamo il 7 giugno 2013, dopo aver ricevuto via mail, da Israele, dalla Jerusalem Open House,
la notizia che le indagini sono ormai a una svolta. Purtroppo pare che una persona
del mondo lgbt* sia coinvolta, o quanto meno abbia offerto una
qualche copertura o motivazione al delitto. Questo ci ricorda quanto possano essere tortuose le vie dell'odio (e dell'odio di sé), ma non esonera nessuno dalle proprie responsabilità. Grazie a chi ha investigato. Auguriamoci che sia fatta giustizia, dopo quattro anni. Pace
alle vittime, Liz e Nir (Nda).
Pubblicato sul Tirreno del 7 agosto 2009
Strage di ragazzi a Tel Aviv
di Mauro Vaiani
Sabato scorso c'è stata una strage a Tel Aviv, in un bar gay.
Si
fa presto a dire “bar gay”. Sembra già quasi sottointeso che un
po' se lo meritino, no? Buona parte della società israeliana è
scioccata proprio per questo.
Qualcuno
di coloro che si sono costruiti una carriera politica cavalcando il
fanatismo religioso e il conformismo sociale, per esempio il leader
del partito Shas, Eli Yishay, vorrebbe in queste ore che certe sue
sentenze sui gay “malati” e “perversi”, fossero dimenticate.
Anche Rabbi Shlomo Aviner, uno di quei religiosi che fanno molta
politica, molto influente fra i coloni, vorrebbe non aver mai detto
che, secondo lui, l'omosessualità è un crimine da punire con la
morte, secondo la Torah...
Peccato
per gli uomini che fanno carriera sulle loro parole incendiarie:
nell'era di Internet è impossibile rimangiarsele, perché da qualche
parte sono registrate per sempre.
Era
un circolo, questo Bar Noar, che significa il “bar dei ragazzi”
(Teens' Bar). Non vendeva alcolici. Vi si beveva coca-cola. Nessuno
sballo, solo quattro chiacchiere. Giovani volontari vi accoglievano
adolescenti e ragazzi, per lo più giovanissimi inquieti, che
cominciavano a fare i conti con la propria omosessualità. Un luogo
innocente, pieno di innocenti.
Sotto
i colpi del killer che ha fatto irruzione nel locale, sono morti una
giovanissima minorenne, Liz Tarbishi, e un giovane volontario di 26
anni, Nir Katz. Molte famiglie, quando sono state chiamate
dall'ospedale a visitare i propri figli feriti, hanno appreso proprio
allora, per la prima volta, della loro diversità.
C'è
da ammirare molto la società israeliana e la sua polizia, in
particolare, per come stanno reagendo: compostezza e caccia al
colpevole, quello vero, quello singolo.
La
polizia non lascia trapelare alcun dettaglio sul ricercato. Non vuole
che si inneschi alcuna facile identificazione stereotipata del
nemico. Potrebbe essere un immigrato russo irretito da una
frequentazione neo-nazi, un arabo-israeliano fanatizzato da qualche
predica islamista, un giovane ebreo ortodosso imbottito di luoghi
comuni spacciati per versetti della Torah? Sì potrebbe, ma meglio
tacere, meglio lavorare, meglio assicurarlo alla giustizia. Se ne
riparlerà, dopo una formale incriminazione e i gradi di processo di
una giustizia che funziona, in una società dove i media sono
effervescenti e combattivi.
Nel
frattempo la Jerusalem Open House, il principale luogo di accoglienza
e di mutuo aiuto fra persone omosessuali ebree, musulmane, cristiane,
luogo di rifugio per gay d'Israele, Palestina, Giordania, Libano e di
tutto il Medio Oriente, prima di tutto si è raccolta in preghiera,
con l'antico grido del Libro di Geremia: “Rachele piange, perché i
suoi figli non sono più”. Il movimento gay deve dimostrare, ancora
una volta, in questa sorta di tragica Stonewall del Medio Oriente, di
essere un movimento di donne e uomini forti, più forti della
violenza.
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